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I CICLONI 21

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Titolo originale dell’opera: “My Bloody Roots - From Sepultura to Soulfly and beyond - The Autobiography”Copyright © Max Cavalera (testi) - © Outline Press Ltd (volume)

Edizione originale pubblicata in USA e Regno Unito da:Jawbone Press, 2a Union Court, 20-22 Union Road, London SW4 6JP, England

Copyright © 2015 A.SE.FI. Editoriale Srl - Via dell’Aprica, 8 - Milanowww.tsunamiedizioni.com - twitter: @tsunamiedizioni

Prima edizione Tsunami Edizioni, giugno 2015 - I Cicloni 21Tsunami Edizioni è un marchio registrato di A.SE.FI. Editoriale Srl

Traduzione di Stefania RenzettiGrafica e impaginazione: Agenzia Alcatraz - www.agenziaalcatraz.itFotografie: salvo diversa indicazione, tutte le fotografie presenti in questo libro provengono dalla collezione privata di Max. La foto di copertina è di Gary Monroe.

Stampato nel mese di maggio 2015 da GESP - Città di Castello (PG)

ISBN: 978-88-96131-75-6

Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, in qualsiasi formato senza l’autorizzazione scritta dell’Editore.Nell’impossibilità di risalire agli aventi diritto delle fotografie pubblicate, l’Editore si dichiara disponibile a sanare ogni eventuale controversia.

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Max Cavaleracon Joel McIver

BLOODYROOTS

L’AUTOBIOGRAFIA

dai SEPULTURA aiSOULFLY e oltre

Traduzione diStefania Renzetti

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Questo libro è dedicato a Dio/Deus.Obrigado por sempre estar comigo e escutar asminhas preces e por iluminar a miha carreira!

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Prefazione di Dave Grohl .............................................................................................................9Introduzione ................................................................................................................................... 13Prologo ............................................................................................................................................15

Capitolo 1 1969-81: Le mie radici insanguinate ...................................................................17Capitolo 2 1981-83: Teschi, scuole e cazzi di ratti..............................................................29Capitolo 3 1984-85: ‘Siamo i Sepultura. Andate tutti a fare in culo’ ............................ 41Capitolo 4 1985-86: Ultraviolenza ........................................................................................53Capitolo 5 1986-87: Giorni bestiali, tempi morbosi ........................................................ 63Capitolo 6 1988-89: Le rovine dell’America .......................................................................73Capitolo 7 1990-91: In ascesa ................................................................................................... 91Capitolo 8 1991-92: Come fare incazzare Lemmy... e vomitare su Vedder ................. 103Capitolo 9 1992-93: La magia del castello in Galles ........................................................ 117Capitolo 10 1994-95: Nailbomb, o come devastare il Dynamo ...................................... 129Capitolo 11 1995-96: Avventure nella giungla .....................................................................141Capitolo 12 1996: Tragedia e tradimento ............................................................................. 155Capitolo 13 1997-98: La nascita dei Soulfly .......................................................................169Capitolo 14 1999-2000: Primitivi con i Probot ..................................................................181Capitolo 15 2001-05: Profetizzando tempi bui ................................................................... 193Capitolo 16 2006: Ricongiungimenti e risoluzioni ...........................................................203Capitolo 17 2007 e oltre: Volando libero ............................................................................ 213Capitolo 18 Epilogo .................................................................................................................229

Discografia ...................................................................................................................................237Ringraziamenti.............................................................................................................................239

INDICE

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Lo studio dei Foo Fighters è un posto fantastico. Quando l’abbia-mo costruito, la prima cosa che abbiamo fatto è stata installare delle enormi casse autoportanti nella cabina di regia. Sembrano

dei monoliti: sono incredibilmente potenti e cristalline, e sono le casse migliori del mondo. Non vedevo l’ora di collegarle e di ascoltarci Roots dei Sepultura, perché hanno le dimensioni dell’impianto audio di Gla-stonbury. Così ho messo su il CD di Roots e ho alzato il volume a 10 – e quel cazzo di disco ha bruciato le casse. Cinquantamila dollari di casse andate in fumo per colpa di Roots...

Ho scoperto i Sepultura sul finire degli anni Ottanta. Sono cresciuto a Springfield, Virginia, e fin da piccolo ho amato il rock‘n’roll. Ho scoper-to l’hardcore e il punk rock intorno all’età di 13 anni: un sacco dei miei gruppi preferiti avevano dei messaggi politici molto forti. Non ero un ri-voluzionario, ma c’era qualcosa che mi esaltava moltissimo nel connubio tra casino e messaggio.

Qualche anno dopo, il mio migliore amico – che era più metallaro di me – aveva iniziato a scoprire il metal underground. Nel 1984 ave-vamo visto i Motörhead nel programma televisivo britannico The Young Ones e avevamo comprato dal catalogo di un mailorder il primo album dei Metallica, Kill ’Em All, su cassetta, senza averlo mai ascoltato pri-ma, solo perché il nome del gruppo e il titolo dell’album ci sembravano fighi. La musica dei Metallica era definita thrash metal, e ci ha aperto un mondo completamente nuovo. Avevamo iniziato a comprare dischi a scatola chiusa, senza averne sentita una nota. Compravamo un album

PREFAZIONEdi Dave Grohl

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per la copertina o il nome del gruppo. Una di quelle nuove formazioni si chiamava Sepultura.

In quel periodo i Sepultura erano considerati i nuovi Slayer – e per quanto mi riguardava, era come essere i nuovi Beatles! Quando ho sco-perto che venivano da un angolo remoto del mondo, ne sono rimasto affascinato, e ho iniziato a seguirli nella loro evoluzione. C’era qualcosa di minaccioso nel sentir cantare con un accento straniero e pensavo fosse una figata pazzesca. Ero talmente abituato a sentire i gruppi hardcore e metal americani e inglesi, che quando me ne capitava uno scandinavo o sudamericano, o di qualche altra parte del pianeta, era tutta un’altra cosa, assumeva una natura quasi malvagia.

Quando i Nirvana sono diventati famosi, ci siamo presi l’impegno di far conoscere a quanta più gente possibile della musica che altrimenti non avrebbe mai ascoltato, dai Teenage Fanclub ai Sepultura. Ci sede-vamo in fondo al tour bus e ascoltavamo la musica, pensando a come promuovere i musicisti che rispettavamo di più, perché li consideravamo validi. Pensavo che quello che stavano facendo i Sepultura in quel perio-do, ovvero attorno all’uscita di Chaos A.D., non fosse diverso da quanto stavano facendo i Nirvana. Noi facevamo musica che veniva dal cuore ed eravamo completamente onesti, non erano solo semplici ritmiche e stupidaggini: c’erano sostanza e spessore.

Ricordo di aver ascoltato Chaos A.D. sul tour bus con Krist Novoselic e di aver detto: “Dovremmo portarci in tour questo gruppo” – perché se loro volevano, ci portavamo in tour i Dead Kennedys, oppure i Bad Brains, e ci saremmo portati anche i Sepultura, se lo avessero voluto, per-ché sentivamo di avere un’affinità con tutti loro. Pensavo che i Sepultu-ra fossero fatti della stessa pasta dei Bad Brains o dei Dead Kennedys. Quelli erano i gruppi che più ammiravamo. Sfortunatamente, poco tem-po dopo Kurt Cobain ci avrebbe lasciati, ma sono abbastanza sicuro che a un certo punto i nostri rispettivi gruppi si sarebbero incontrati lungo il percorso – e sarebbe stato fantastico.

Ricordo la prima volta che sono andato a salutare i Sepultura sul loro tour bus. Ero nervoso, perché li ammiravo così tanto e non volevo sem-brare un cazzo di fanboy imbranato. Davanti a loro però, mi sono davvero

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sentito come se fossi in un posto speciale. Certe band ti danno proprio l’impressione di essere un vero gruppo, e i Sepultura sembravano una gang di un altro pianeta. Erano la combinazione perfetta di tutte le cose che adoro della musica. Quando nel 1996 è uscito Roots, ha cambiato tutto. Ha alzato talmente tanto il livello che ancora oggi credo nessuno ci si sia avvicinato.

Ho avuto la fortuna di far cantare Max sull’album dei Probot, che ho pubblicato nel 2004. I Probot erano un esperimento: ho sempre amato la musica davvero pesante, ma non ritenevo fosse possibile inserirla nella produzione dei Foo Fighters di quel periodo. Avevo uno studio nel mio scantinato, e mi ero messo a scrivere dei riff che registravo per diverti-mento. L’ho fatto per anni: davo le cassette agli amici che si mettevano in viaggio, in modo che avessero qualcosa da ascoltare mentre guidavano. Poi un mio amico mi ha convinto a mettere insieme la mia formazione ideale di cantanti e riunirli tutti per farli cantare su quei pezzi strumenta-li. Ho pensato a tutti i miei cantanti metal preferiti, e Max doveva farne parte.

Dato che li conoscevo molto bene – non personalmente, ma musi-calmente – ho incrociato le dita e sperato che avrebbero fatto quello che mi aspettavo. Quello che volevo sul brano ‘Red War’ dei Probot era puro Max Cavalera. Quando mi è stato rispedito il CD, ho avuto esattamente quello che volevo: Max allo stato puro. Era incredibile: i suoi testi sul Pas-so Khyber e l’Afghanistan si sono rivelati totalmente profetici. Dal punto di vista lirico, non delude mai. È un tipo assolutamente geniale.

Max Cavalera è una leggenda. Non si è mai svenduto, è sempre ri-masto autentico – e potrà sempre dire: “Io ho fatto Roots”. Che per me è una cosa epocale.

Dave Grohl2014

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Scrivo questo libro per diverse ragioni.Prima di tutto, la mia storia deve essere raccontata, onesta-

mente e accuratamente. Ho avuto la fortuna di essere un mem-bro fondatore non di uno, ma di due gruppi metal di successo: i Sepultura e i Soulfly, e con loro ho viaggiato per il mondo più volte di quante ne ricordi.

Lungo la strada ci sono stati caos, morte e dipendenza e alcuni rap-porti sono stati creati e distrutti. La verità sui Sepultura, la mia amata prima band, e sul perché li ho lasciati non è mai stata completamente rivelata prima d’ora, e nemmeno quella sulla mia lotta contro l’alcol e gli antidolorifici. È tempo di dire le cose come stanno.

Voglio anche rendere omaggio alle persone nella mia vita – quelle che sono ancora con me e quelle che mi hanno lasciato. Mia moglie, i miei bambini, mia madre, mio fratello, mia sorella, i miei compagni di gruppo, i miei amici e naturalmente i miei fan continuano ad appoggiarmi, anche dopo tutti questi anni, e questo libro racchiude la mia gratitudine nei loro confronti. Per mio padre Graziano Cavalera, morto quando ero un bambino, e per il mio figliastro Dana Wells, assassinato nel 1996: niente meglio delle parole racchiuse in questo libro può esprimere il mio amore per loro, e la tristezza che provo per la loro mancanza.

Infine, voglio omaggiare il mio Paese natio, il Brasile. È una terra vivace, bellissima, con molte sfaccettature, e il mio amore per lei è più profondo di quanto possa esprimere. Ho visto il Brasile dare il suo meglio e il suo peggio, dalle gang nelle strade cittadine alle popolazioni indigene

INTRODUZIONE

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Introduzione

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della giungla, e tutti questi elementi hanno alimentato e ispirato la mia musica.

I Sepultura sono stati il primo gruppo rock brasiliano a ottenere un successo internazionale. Abbiamo sperato che altri gruppi potessero ve-nire dopo di noi e fare lo stesso, ma nei 30 anni dalla formazione dei Sepultura, ciò non si è ancora verificato. È compito della mia nuova band, i Soulfly, portare la bandiera brasiliana in tutto il mondo – e lo considero un grande onore.

Spero che questo libro possa ispirarvi a visitare il mio Paese, e a vi-verlo di persona. Nessun altro posto avrebbe potuto partorire un gruppo come i Sepultura, e poi i Soulfly. È unico.

Con amore e rispetto per la tribù...

Max CavaleraPhoenix, Arizona2014

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Il 16 dicembre 1996 la mia band, i Sepultura, era davvero gasata e ca-rica. Eravamo uno dei maggiori gruppi metal del pianeta, e di sicuro l’unico del nostro Paese, il Brasile, ad aver raggiunto il successo su

scala globale.Quella sera avevamo fatto un concerto alla Brixton Academy di Lon-

dra. Il pubblico era eccezionale. Avevamo suonato benissimo. La band era incredibilmente compatta, e avevamo tirato giù il locale. Dopo più di dieci anni di duro lavoro, eravamo diventati uno dei gruppi heavy metal più famosi del pianeta e avevamo raggiunto il nostro massimo potenziale. Pensavo che qualsiasi cosa avessimo fatto in seguito, avremmo senz’altro compiuto un passo avanti e ottenuto ancora più successo.

Non sapevo che Dio avesse altri progetti per me. La mia vita stava per essere completamente capovolta.

PROLOGO

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Mi chiamo Massimiliano Cavalera e sono nato a Belo Ho-rizonte, Brasile, il 4 agosto 1969. Di fatto la mia famiglia non viveva a Belo Horizonte: abitavamo a San Paolo, a 320

miglia di distanza. Il motivo per cui sono nato a Belo è che mia madre aveva deciso così. La sua famiglia era di lì, così aveva preso un autobus da San Paolo a Belo – un viaggio di otto ore! – ed era andata in ospedale. Esattamente un anno e un mese dopo, il 4 settembre 1970, anche mio fratello Iggor ha visto la luce lì. Nostra madre aveva fatto la stessa cosa: era risalita sull’autobus ed era andata a Belo.

Belo non è male. È la terza città più grande del Brasile, ma mantiene un’aria molto antiquata e conservatrice. È piena di chiese e la gente è molto cattolica. Ha una mentalità provinciale, anche se è una grande città. La gente del posto ama pensare di appartenere ad una piccola comunità agricola – è la sua mentalità. Si trova in una valle, circondata dalle montagne, ed è molto bella. Lì vicino c’è un posto delizioso chiamato Ouro Preto, con varie strade acciottolate e colline, e tante chiese bellissime: ci vanno un sacco di turisti.

Mio padre, Graziano Cavalera, lavorava all’ambasciata italiana di San Paolo. Mia madre, Vania, era un’ex modella – quando era giovane aveva posato per qualche rivista. Si erano incontrati quando mio padre si era trasferito a San Paolo dall’Italia con tutta la famiglia – sua mamma, sua sorella, suo fratello e suo padre.

Vania Cavalera Ho incontrato per la prima volta il padre di Max, Gra-

ziano, il 27 novembre 1965 in un club di San Paolo. Lavorava al consolato

Capitolo 11969-81:

LE MIE RADICIINSANGUINATE

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1969-81: Le mie radici insanguinate

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italiano e io ero una modella. Non avevo molto tempo da dedicare a una re-lazione, perché lavoravo parecchio nelle pubblicità televisive e sfilate di moda. Dopo il nostro incontro in quel club abbiamo fatto una passeggiata lungo la spiaggia e lui ha suonato la chitarra per me. Era intelligente, con un gran senso dell ’umorismo. Era bellissimo, ed era mio.

Siamo cresciuti vicino al centro città, lungo una strada chiamata Ave-nida Angelica. A mio padre piaceva moltissimo il calcio: eravamo tifosi del Palmeiras, che era la nostra squadra. Era stata fondata da italiani, e ai primi del Novecento si chiamava Palestra Italia. Così è diventata la squa-dra del cuore di mio padre quando si è trasferito in Brasile, per via del legame con l’Italia. Portava me e Iggor allo stadio religiosamente – ogni mercoledì sera, ogni giovedì sera e ogni sabato o domenica.

Di fatto Iggor ha iniziato a suonare la batteria allo stadio, suonando con i tifosi del Palmeiras. Durante la partita c’erano dei percussionisti che suonavano ritmiche samba, e uno di loro gli aveva dato un rullante dicendo: “Hey ragazzino, suona ‘sto coso!”. Così aveva iniziato a suonare, ed era veramente bravo. Mi aveva lasciato di stucco.

Avevamo una numerosissima famiglia italiana. Ogni domenica ci ri-univamo tutti per mangiare insieme – eravamo in 20 o 30 attorno a un tavolo enorme. Si passava l’intera giornata a tavola. Facevamo un sacco di chiasso: con gli italiani va così. Poi i cugini finivano a litigare. Una volta un mio zio ha lanciato un piatto che ha colpito in fronte uno dei miei cugini. È caduto a terra, svenuto, con la faccia ricoperta di sangue: gli hanno dovuto mettere dei punti. Il tavolo era ricoperto di pasta, vino e sangue, e tutti urlavano e davano di matto. Quello per noi era un tipico pranzo della domenica.

Mio nonno era un personaggio. Era un marinaio della Marina Ita-liana, ed era pieno di tatuaggi di barche e altre cose fighe. Una volta mi aveva raccontato di come era arrivato in Cina via mare e, anche se era sposato con mia nonna Maria, era tornato con il nome di un’altra donna tatuato sul braccio – e ne aveva pagato le conseguenze. Penso si fosse ubriacato in Cina e che si fosse fatto tatuare un altro nome per sbaglio. Era solito dare a me e Iggor un bicchiere di vino misto a zucchero e

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acqua. Avevamo circa otto anni e aveva già iniziato a farci ubriacare. Era un vero sballo.

Naturalmente avevamo un sacco di parenti al di fuori dei famigliari più stretti. I genitori di mio padre, che si erano trasferiti in Brasile con lui, erano entrambi vivi ai tempi. Aveva anche due sorelle e un fratello che abitavano in Canada e ogni tanto venivano a trovarci. Tutti loro ave-vano dei figli, quindi avevamo tanti cugini. Uno di loro si chiamava San-dro: quando eravamo piccoli era molto legato a me e Iggor. Bazzicavamo spesso insieme e ci cacciavamo nei guai. Disegnavamo sui muri con la vernice spray e cazzate del genere.

Ero felice. Ero molto legato a mio padre. Volevo bene anche a mia madre, ma avevo un legame particolare con mio padre per via del calcio. Era anche un amante della musica: quando lavorava all’ambasciata, ogni giorno tornava a casa per una pausa pranzo di due ore, tra mezzogiorno e le due, e mentre mangiava ascoltava musica classica e opera italiane. Aveva una grossa collezione di vinili – qualcosa come 3000 dischi – e un bell’impianto stereo. Era un vero appassionato di musica e Iggor e io abbiamo sicuramente preso da lui. Suonava anche la chitarra acusti-ca: perlopiù canzoni operistiche italiane. Era fissato con l’opera: poteva ascoltarla per ore.

Avevamo una seconda casa in un villaggio turistico chiamato Playa Grande, che è a circa un’ora e mezza da San Paolo. La sorella di mio padre era la proprietaria della casa accanto alla nostra e nei fine settimana ci andavamo tutti insieme. Quanto mi piaceva! Era una meraviglia, lì vici-no all’oceano. Mio padre adorava l’oceano perché in Italia era cresciuto vicino al mare. Gli piaceva portarci a nuotare e a giocare a pallone sulla spiaggia. Durante la settimana, a scuola, non aspettavamo altro.

Iggor e io abbiamo frequentato una scuola cattolica a San Paolo, un posto davvero rigido, con delle suore che somigliavano a dei pinguini. Dovevamo seguire tutte le abitudini cattoliche, come pregare prima delle lezioni e roba del genere, ma eravamo bravi. Prendevamo dei bei voti, io e Iggor – il massimo, a dire il vero. Non cazzeggiavamo: studiavamo tanto. Mi piaceva molto la storia, ed ero sempre interessato ai fatti storici. Non ero altrettanto bravo in matematica, ma me la cavavo. Giocavamo spesso

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a pallone con gli altri ragazzini del vicinato – c’era un campetto in cui si poteva giocare al calcio a cinque al coperto. Siamo cresciuti praticando quello sport.

Iggor Cavalera Uno dei motivi per cui io e Max andiamo così d’accordo è che siamo diversi sotto tanti punti di vista. Ci completiamo a vicenda. Se fos-simo simili, sarebbe difficile concludere qualcosa, perché ci scontreremmo molto di più.

Nel 1975 mia madre aveva avuto una bambina. Si chiamava Carissa, ed era nata con una grave malattia. Era davvero piccola e fragile. Appena nata era stata messa in incubatrice, con una maschera per l’ossigeno; è stato un periodo molto stressante. È morta dopo appena un mese.

Un anno dopo è nata un’altra sorella, Kira: era in salute e tutto è an-dato per il meglio. È nata a San Paolo: quella volta mia madre non era andata a Belo Horizonte. Penso si fosse stancata di tutta la routine di prendere l’autobus, quindi aveva detto: “Questa nascerà qui”. Era bello avere una sorellina.

Vania Cavalera I nostri bambini erano bellissimi. Eravamo una famiglia molto felice. Massi, era così che chiamavamo Max, era il nostro principino, Iggor il nostro bambino1 e Kira la nostra principessina.

A parte la morte di Carissa, l’altro evento rilevante nella mia infanzia è stato quando ho avuto la meningite, all’età di otto anni. Un giorno mi era venuta la febbre altissima e avevo le allucinazioni. Era andata avanti così per ore finché mio padre aveva detto: “Adesso basta – ti porto subito in ospedale”. Mi aveva messo in macchina ed eravamo andati in ospedale, dove ricordo che mi hanno fatto un’iniezione nel collo con una siringa enorme. L’ago era grosso quanto il braccio di una persona, e mi aveva steso.

In seguito ho scoperto che sono sopravvissuto grazie a mio padre che mi ha portato in ospedale. Se avesse aspettato fino al giorno dopo, sarei

1 - In italiano nel testo originale.

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morto. Ero rimasto ricoverato per una settimana e quando sono tornato a casa mi hanno fatto un sacco di regali.

Dopodiché le cose si sono calmate per un po’. Certo, capitava qual-che incidente: avevo picchiato la testa contro un estintore, nel palazzo in cui abitavamo, e mi avevano dato 20 punti. Ero più incline a farmi male rispetto a Iggor, e mi ammalavo sempre. Lui scoppiava di salute, mentre io mi ero fatto tutte le malattie: morbillo, influenza, meningite, punti in testa... non finiva mai, e per i miei genitori era stressante.

Iggor e io eravamo diversi anche sotto altri aspetti: io ero senza peli sulla lingua mentre Iggor era un po’ timido, specialmente con le ragazze. Io mi mettevo tranquillamente a parlare con gli sconosciuti, mentre lui non lo avrebbe mai fatto. Eravamo come il giorno e la notte. Era decisa-mente strano. Però eravamo molto uniti. Uscivamo insieme e andavamo negli stessi posti. Guardavamo gli stessi cartoni animati in TV – ci pia-ceva una serie giapponese chiamata Ultraman, con un supereroe vestito di rosso. Volava e faceva un sacco di roba. Piaceva a entrambi. Forse non eravamo poi così diversi.

Mio padre guadagnava molto bene. Gli era stata offerta la possibilità di viaggiare per il mondo o rimanere a San Paolo, ma lui aveva scelto di restare e occuparsi delle questioni diplomatiche in città. Ricordo di aver partecipato a delle cene importanti all’ambasciata: erano incredibili. C’e-rano politici e altre persone di spicco, e dovevamo vestirci eleganti, con lo smoking e cose così.

Vania Cavalera A Graziano piaceva difendere la gente. Una volta sono dovuta andare a prenderlo alla stazione di polizia, dove lo stavano sentendo per via di un amico a cui avevano sparato. Il capo della polizia stava inter-rogando due tizi capelloni e Graziano li stava difendendo. Diceva che la lun-ghezza dei capelli non aveva niente a che fare con la loro intelligenza.

Era davvero una vita straordinaria. A quei tempi in Brasile c’era la dittatura, ma noi non la percepivamo: di fatto, non ne sentivamo mai parlare. Negli anni Settanta un sacco di musicisti erano andati in esilio per via della repressione: il governo li controllava costantemente ed erano

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diventati davvero paranoici, ma la cosa non ci riguardava. Eravamo dei ragazzini e avevamo un’auto nuova di zecca, un bell’appartamento e una casa al mare, quindi la vita era perfetta.

Era un’infanzia da sogno. Mio padre non litigava mai con mia madre, nemmeno una volta. Non discutevano quasi mai; forse un pochino. Non beveva e non c’è mai stata violenza in famiglia. Rispetto a quello che ho visto in seguito, quando ho viaggiato per il mondo, ho avuto un’infanzia molto diversa da quella di parecchia altra gente.

Mia madre era quella che ci teneva in riga e si assicurava che pulissi-mo le nostre stanze e facessimo i compiti. Mio padre era un po’ come il terzo fratello: era un’altra persona da frequentare, una situazione che mi piaceva molto. Diceva sempre: “Andiamo a giocare a pallone!”. Anche quando si arrabbiava con noi, non durava mai a lungo, perché dopo un minuto scoppiava a ridere. Provava a farci la ramanzina quando facevamo qualcosa di sbagliato, ma poi si metteva a ridere e finiva lì.

C’era però un elemento strano nella nostra vita: la religione. I miei genitori erano entrambi cattolici, ma mia madre apparteneva anche a una religione brasiliana chiamata candomblé. Ha gli stessi santi cattolici e i suoi seguaci credono in Gesù e Maria, ma ha anche dei legami con i santi africani. I fedeli hanno una forte spiritualità: parlano con i morti.

Quando ero piccolo, mia madre praticava molto la religione candom-blé, e spesso prendeva me e Iggor e ci diceva di seguirla per andare a certi rituali. Ho visto un sacco di gente posseduta che parlava lingue diverse. La gente usciva di testa davanti a noi e si metteva a parlare con i parenti morti: mia madre parlava con sua nonna. Era tutto piuttosto assurdo: una dimensione completamente nuova. Per qualche motivo mi piaceva molto il candomblé, e avevo lasciato che mia madre mi guidasse spiritualmente: ancora oggi continua ad accendere candele per me, per proteggermi. Ha dedicato tutta la sua vita a questa religione ed è una cosa che rispetto.

Il candomblé è normale in Brasile. La gente lo conosce e non è il genere di cosa su cui scherzare. È roba seria, perché quando vedi la gente posseduta – come è capitato a me – ti rendi conto che non è una messa in scena, è una cosa reale. Prendere parte a quei rituali è una vera e propria esperienza. Puoi riconoscere i seguaci del candomblé perché portano delle

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perline colorate al collo: a volte, la gente che meno ti aspetti è praticante. L’ho sempre considerata una cosa seria.

Un sacco di gente pensa che il candomblé sia come la brujeria, che è la stregoneria messicana, ma non è così. Viene usata a fin di bene: per farti da guida e indicarti il percorso nella vita, e per aiutarti a risolvere i problemi. Questo è l’aspetto che mi piace. Rappresentava un legame con mia madre. Ogni volta che aveva bisogno di me per quei rituali spirituali, io c’ero, e andavano avanti per tutta la notte – fino alle sei di mattina, in alcuni casi, con la gente che suonava le percussioni e cantava. Molti ri-tuali si svolgevano nel salotto di casa mia, con la gente vestita di bianco: passavano lì tutta la notte, suonando le percussioni, cantando e venendo posseduti. Pensavo fosse un’autentica figata.

Comunque, il candomblé è diffusissimo in Brasile. C’è una battuta che dice che il 90% della nazione è cattolica e il 110% è seguace del candom-blé. Alcuni lo praticano in segreto: non vogliono che la gente lo sappia. Altri lo dicono, come mia madre, che ne parla con tutti. Una volta ha fat-to una specie di sacrificio, si è rasata la testa e ha passato un intero mese in una stanzetta: ricordo che andavamo a trovarla. Ho sempre pensato che mia madre fosse molto potente e con una solida spiritualità. Non conosco nessun altro che avrebbe fatto una cosa del genere per motivi religiosi. È una persona molto forte.

I rituali candomblé mi sono piaciuti fin dall’inizio. Mi piacevano la musica e il canto – e mi piacevano le persone possedute. Per me era in-credibile che alcune di loro iniziassero a parlare come dei bambini o dei ragazzini: vedevi una donna di 50 anni che si metteva a parlare come se ne avesse tre. Lo adoravo: pensavo fosse bellissimo perché era davvero in-tenso. Aspettavo nella stanza per tutta la notte solo per vedere chi sarebbe stato il prossimo posseduto. Si ballava e si suonavano le percussioni e poi qualcuno usciva dal cerchio e veniva posseduto e iniziava a dire delle cose assurde in qualche lingua africana. E io dicevo: “Cazzo, sì!”, e lasciavo che mia madre mi coinvolgesse.

Le dicevo: “Non ho problemi, va tutto bene. Puoi servirti di me per i tuoi rituali perché voglio esserci, e se hai bisogno di me per qualsiasi cosa, io ci sono. Sono l’uomo su cui puoi contare!”. A Iggor però il candomblé

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non piaceva tanto quanto a me. Era un po’ diffidente e anche un po’ spa-ventato.

Mike Patton Uno dei miei aneddoti preferiti, che mi torna sempre in mente quando penso a Max, ha a che fare con la religione candomblé. Gli è stata trasmessa dalla madre. Ai tempi facevo un sacco di domande ai ragazzi, ed era divertente perché sia Max che Iggor ne erano terrorizzati. Dicevano: “Ti ci portiamo, ma stai attento!”. In effetti era una versione edulcorata. Erano presenti solo perché io ero interessato: non ne volevano sapere niente.

Max e Iggor traducevano per me e in pratica sono stato purificato, e dopo ho chiesto a Max: “Ho provato una sensazione benigna: è stato come se uno spirito cercasse di aiutarmi. Qual è il problema?”. Mi ha risposto che quando era molto giovane, aveva avuto un problema a un occhio e sua madre aveva fatto qualcosa. Aveva fatto un piccolo rituale e l ’occhio gli era guarito, e da quel momento in poi era rimasto terrorizzato. Sono andato a casa di sua madre e aveva un altare enorme nel salotto. Era piuttosto impressionante”.

Nel 1979 mio padre ha organizzato un viaggio per tutti noi, in Europa e in America. In Italia, dopo essere andati a trovare tutti i parenti ed essere rimasti un po’ con loro, mio padre mi aveva portato in questo posto chiama-to Montagna Spaccata, che ricordo ancora oggi. Sul lato di una montagna è incisa l’impronta di una mano: sembra che cinque dita siano state pressate nella pietra. La leggenda dice che c’era un uomo che non credeva in Dio, e aveva detto: “Se Dio esiste, fai penetrare le mie dita in questa pietra!” – e così era successo. Si possono proprio infilare le dita nei buchi.

Quando siamo andati in Vaticano, a Roma, è successa una cosa stra-ordinaria. Mio padre aveva detto: “Ho una sorpresa per te”, e si era messo a parlare in italiano con dei pezzi grossi del Vaticano. Sapevo che stava per succedere qualcosa di speciale perché erano delle persone veramente importanti. Siamo andati sotto al Vaticano, in una specie di catacomba – e lì sono stato battezzato. Mio padre aveva fatto in modo di farmi bat-tezzare in Vaticano da un alto prelato. C’erano tipo altri otto preti con i loro abiti. È stata un’esperienza piuttosto emozionante, per via del luogo in cui mi trovavo. Pensavo: “Questa è una follia...”.

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Non capivo molto, perché era tutto in latino. Mi avevano cosparso la fronte di olio e mi avevano messo la testa nell’acqua. Eravamo rimasti lì per quattro ore buone, in quella catacomba, e poi mio padre mi aveva guardato e aveva detto: “Sei stato ufficialmente battezzato in Vaticano. Volevo fare questa cosa per te e spero che ti abbia fatto piacere”. Gli ave-vo risposto: “Sì! Grazie, è fantastico”. Quando racconto questa storia, un sacco di gente va fuori di testa. “Sei stato battezzato in Vaticano? Mi stai prendendo per il culo...”.

Poi siamo andati in America e abbiamo visitato New York. Ecco un aneddoto divertente: mio padre aveva prenotato il miglior ristorante ita-liano della città. Quando però siamo arrivati, il tizio che ci aveva accolti non sapeva chi fosse mio padre e aveva detto: “Mi dispiace, non siete in lista”. Mio padre aveva risposto: “Impossibile, ho prenotato”, e a quel punto era uscito il manager. Trovandosi davanti mio padre era impazzito, si era messo a parlare in italiano e l’aveva abbracciato, e poi ci aveva fatto accomodare al centro del ristorante. Avevo pensato: “Evvai! Mio padre è una cazzo di autorità...”.

Poi era arrivato un cameriere, e mio padre voleva sapere dov’era il ba-gno. Siccome non parlava inglese, stava cercando di chiederlo in italiano e portoghese, ma il cameriere non capiva – così mio padre è salito sul tavolo, si è tirato giù la lampo dei pantaloni e ha messo fuori un dito al posto del pisello. Tutto il ristorante aveva assistito alla scena. Mi ero reso conto che mio padre aveva anche un lato pazzoide, per comportarsi così. Avevo pensato: “Questa è pura follia!”.

Una domenica, un mese dopo essere rientrati dal grande viaggio, sta-vamo cenando con i miei nonni e tutta la famiglia italiana, e mio padre aveva noleggiato per noi una piccola barca in una zona di San Paolo chiamata Interlagos, dove c’è appunto un grande lago. Ci eravamo andati con uno dei miei cugini più grandi, e avevamo portato fuori la barca un paio di volte. Ci eravamo seduti a dei tavoli e andava tutto bene. Poi mio padre è tornato dal lago lamentando un dolore al petto. Ha guardato mio cugino e ha detto: “Il petto mi sta uccidendo: mi fa proprio male il cuore”. Le cose erano peggiorate in fretta, e a un certo punto ha detto: “Adesso mi sto proprio spaventando”. All’epoca mio cugino aveva solo 17 anni,

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ma mio padre gli ha dato le chiavi della macchina e ha detto: “Guida tu. Portami subito in ospedale – c’è qualcosa che non va”.

Mio padre si era messo davanti e io mi ero seduto dietro di lui, ab-bracciandolo. L’ho tenuto così fino al nostro arrivo ospedale. A quel pun-to, sapevo che era morto. L’avevo semplicemente sentito. Se n’era andato. Quando l’hanno tirato fuori dalla macchina, sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto.

Almeno ero stato con lui mentre andavamo in ospedale. Aveva pas-sato gli ultimi istanti della sua vita con me. Molti anni dopo ho scoperto che, due settimane prima di morire, mio padre aveva deciso di trasferirsi a Roma. Si stava preparando a portarci tutti in Italia.

Una volta tornati a casa, mia zia era venuta a parlarmi: “Devo dirti una cosa, e non sarà facile”, aveva esordito; e io le ho risposto: “Lo so già che mio padre è morto”. “Come fai a saperlo?”, mi ha chiesto e io le ho detto di averlo sentito appena arrivati in ospedale. Non c’era più. E lei aveva confermato: “Sì, è vero. Tuo padre non c’è più”.

Vania Cavalera Quando è morto il padre di Max, il 22 settembre 1979, ho sentito le parole più dolorose che avessi mai udito in vita mia: “Mamma, vogliamo solo parlargli ancora una volta”.

Era stato uno shock totale. La vita aveva appena subito un cambia-mento a 360 gradi. Era una situazione completamente disorientante, e avevo solo dieci anni. Dovevo affrontare il funerale. Quando sono andato a dargli un bacio, il suo viso era freddo. Per un sacco di tempo non ho sopportato la vista delle rose, perché la camera ardente ne era piena. Il loro odore mi ha perseguitato. Ancora oggi, mi viene un colpo se lo sento. Non ne sopporto la vista perché mi riportano dritto a quel momento.

La nostra vita era cambiata. Un anno prima eravamo ricchi e avevamo un padre che lavorava all’ambasciata: un anno dopo ci eravamo ritrovati a vivere con nostra madre e non avevamo soldi. Siamo stati salvati da nostra nonna, che ci aveva dato uno spazio abitabile sul retro di casa sua.

Potete immaginare lo shock culturale legato a una situazione del genere. Io e Iggor dicevamo: “Che cazzo sta succedendo? Perché ci è

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capitata una cosa simile?”. Non capivamo, e quindi ci ribellavamo. Ribel-lione totale. Avevamo smesso di andare bene a scuola. I nostri voti erano precipitati ed eravamo stati cacciati da due scuole diverse. Mia madre cercava di tenere in riga me e Iggor, ma eravamo troppo ribelli e troppo incazzati per quello che era successo.

La gente non riusciva a capire. Diceva: “Ormai è successo. Fatevene una ragione”.

E mia madre ci aveva detto: “Ragazzi, dovete trovarvi un lavoro e dare una mano, perché non potete stare qui gratis – vostra nonna vuole i soldi per la casa in cui stiamo”. E così aveva organizzato dei lavori da far fare ogni giorno a me e Iggor, quando tornavamo da scuola. Avevamo solo dieci e undici anni all’epoca.

Iggor Cavalera Dopo la morte di mio padre sono diventato ancora più introverso, nei confronti degli altri ma anche di me stesso. Prima ero molto più aperto e carismatico con la gente. Dopo, e per diversi anni, sono diventato davvero timido: è stata la band che mi ha riportato a uno stile di vita normale.

Il nostro primo lavoro è stato nella fabbrica di cappelli di mio nonno, dopo la scuola. Era una grossa azienda. Dovevo tagliare la roba che si mette sulla parte anteriore del cappello, che era di plastica molto dura. Ogni giorno bisognava tagliarne mille pezzi con le forbici, ed era una cosa che odiavo. Certe volte mi arrabbiavo così tanto che prendevo un’in-tera consegna e la buttavo sul tetto, dicendo a mio nonno che avevo finito. Certe volte ci teneva a lavorare fino a tardi – diceva: “Continua a lavorare, ragazzo!”, fino alle dieci di sera. Ci stava veramente sul cazzo.

Poi mia madre ha comprato una gelateria, ed è stata una pessima idea perché non sapeva niente di quel genere di attività. Iggor e io dovevamo servire il gelato ai clienti, ma siccome in quel periodo non ce ne fregava un cazzo di niente, tenevamo la musica a tutto volume e non riuscivamo a sentire i clienti. Gli davamo dei gelati in cui avevamo infilato le dita e la gente diceva: “Hai appena messo le mani nel mio gelato!” e noi rispon-devamo: “E allora?”. La cosa era durata un mese e poi mia madre aveva lasciato perdere – aveva dovuto vendere il locale.

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Poi siamo andati a lavorare con mia zia, che aveva una fabbrica di scarpe. Dovevamo lavorare con delle taniche di colla e un sacco di operai la sniffavano. Sniffavano quella merda e si sballavano per ore, e quindi lo facevamo anche noi, andando totalmente fuori di testa. Immaginatemi a 12 anni, che sniffo colla e faccio scarpe, completamente fatto. È uno sbal-lo strano, non ho mai provato niente di simile da allora. È un po’ come calarsi un acido – hai le allucinazioni e senti le voci.

Una volta ricordo di aver sniffato talmente tanta colla da aver visto mio padre. Era in piedi vicino alla porta davanti a me, e mi era venuto un colpo. Era arrabbiato con me: era una cosa seria e l’avevo percepita come un segno da parte sua, come se volesse dirmi: “Dai un taglio a queste stronzate o morirai”.

Avevamo mollato quel lavoro. Dopodiché Iggor e io abbiamo trovato un impiego per un paio di mesi come commessi in un negozio di dischi, e quello è stato il nostro ultimo lavoro. In un certo senso, la vita ci stava dicendo: “È ora di farvene una ragione”. Non avevamo scelta. Non po-tevamo aspettare oltre. La vita ci aveva detto: “Fatevene una cazzo di ra-gione adesso! Non me ne frega di quanti anni avete, o se non siete pronti. Non me ne frega un cazzo. Non avete scelta e dovete farlo. È morto, se n’è andato e non avete un soldo. La vita è una merda. Benvenuti al mondo”. Ci eravamo svegliati.

Era quasi come se tutti gli anni passati con lui, quando avevamo i sol-di, non facessero più parte della realtà. Quell’aspetto del nostro mondo si era frantumato nel 1979, e il mondo reale era venuto a bussarci alla porta dicendo: “Siete pronti per me?”.

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Per quanto la morte di mio padre fosse stata orribile e avesse com-portato un cambiamento radicale nello stile di vita della mia fa-miglia, ci aveva dato uno scopo. Mi dico sempre che se non fosse

morto, forse non saremmo diventati dei musicisti – probabilmente adesso saremmo seduti a casa nostra, lavoreremmo all’ambasciata con lui, con la cravatta e i capelli corti, e niente di tutto questo sarebbe successo. La sua morte è strettamente legata alla piega che ha preso la mia vita, fino al presente. Tutto questo è scaturito dalla sua morte.

È una cosa troppo grande per riuscire a spiegarla a parole, su una pagina. Tutta la mia ribellione da ragazzo, e il fatto di non capire perché Dio mi avesse portato via questa persona, a quell’età e in quel momento – sono i fattori che hanno portato all’anarchia e all’atteggiamento anti religioso dei primi Sepultura.

Il gruppo era totalmente contro la chiesa e la religione. Ero arrabbiato con Dio, anche se continuavo a seguire un percorso spirituale con mia madre. Era un periodo confuso: la musica è stata davvero la mia salvez-za, e mi ha impedito di prendere la strada del crimine e della droga. Ce l’avevamo davanti: ci sarebbe voluto poco. Avevamo degli amici a Belo che erano invischiati con la droga e nella criminalità, ed erano morti per overdose. Eravamo consapevoli di quella merda. Ma la musica è stata più forte e ci ha salvati.

Mia madre è rimasta fedele a mio padre, e non si è mai risposata. Che io sappia, dopo la sua morte ha frequentato solo un paio di uo-mini, e in entrambi i casi si è trattato di storie molto brevi, perché non

Capitolo 21981-83:

TESCHI, SCUOLE E CAZZI DI RATTI