arlare con [email protected] pane quotidiano€¦ · carne dell’animale totem che rimanda...

36
«FRATELLO... NESSUNO QUI TI DOMANDERA’ CHI SEI, NE’ PERCHE’ HAI BISOGNO, NE’ QUALI SONO LE TUE OPINIONI» PERIODICO QUADRIMESTRALE - PUBBLICAZIONE OMAGGIO - ANNO XXI N.77 DICEMBRE 2012 - SPEDIZIONE IN A.P. 70% - FILIALE DI MILANO VUOI PARLARE CON NOI? CHIAMA IL NUMERO 02 58310493 [email protected] PANE QUOTIDIANO PANE QUOTIDIANO

Upload: others

Post on 31-May-2020

2 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

«FRATELLO... NESSUNO QUI TI DOMANDERA’ CHISEI, NE’ PERCHE’ HAI BISOGNO,

NE’ QUALI SONO LE TUE OPINIONI»

PER

IOD

ICO

QU

AD

RIM

ESTR

ALE

- P

UB

BLI

CA

ZIO

NE

OM

AG

GIO

- A

NN

O X

XI N

.77

DIC

EMB

RE

2012

- S

PED

IZIO

NE

IN A

.P. 7

0% -

FILI

ALE

DI M

ILA

NO

VUOI PARLARE C

ON NOI?

CHIAM

A IL N

UMERO 0

2 58310493

panequot@tin

.it

PANE QUOTIDIANOPANE QUOTIDIANO

IL CONTO CAMBIA,CAMBIA LA BANCA!

www.bancadilegnano.it

Basta con i soliti conti correnti che mi obbligano a regole che mi stanno strette. Finalmente c’èun conto nuovo che lascia fare a me. Decido io quando, dove e anche come utilizzare la Banca.Posso andarci, telefonare o connettermi attraverso internet, per controllare ma anche per operare.Le operazioni costano Zero euro, mentre gli interessi vengono aggiornati automaticamente.In più mi regala Carta Jeans, la prepagata ricaricabile.

ContoPerMe, il conto multioperativo

Il Conto che fa i miei interessi.Zero spese, più interessi e tutta la libertà che ho

sempre cercato.

Da Banca di Legnano

xmeperconto

Prendere visione delle condizioni economiche mediante i fogli informativi disponibili presso ogni Filiale (D. Lgs 385/93). Il presente messaggio pubblicitario ha finalità esclusivamente promozionali.

ANNO XXI N.77 Dicembre 2012

Reg. del Trib. di Milano n.592 del 01/10/90Spedizione in abbonamento postale 70% - Filiale di MilanoPubblicazione Omaggio

Gentile lettore/lettrice, La informiamo che i Suoi dati sono inseriti in un database gestito dall’editore. Siamo tenuti a informarLa che il trattamento dei dati che La riguardano viene svolto a mezzo di supporti informatici nel rispetto di quanto previsto dal decreto Legislativo 30-6-2003 N° 196 (pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 29-7-2003 N° 74) Codice in materia di protezione dei dati personali.In qualsiasi momento, Lei potrà richiedere la modifica o la cancellazione dei dati, scrivendo all’editore. Potrà ugualmente rivolgersi allo stesso indirizzo qualora Lei non desiderasse ricevere Che vi do.

Gli autori si assumono la piena responsabilità degli articoli firmati. La rivista, salvo diversi accordi firmati tra le parti, diventa proprietaria delle foto, dei disegni e degli scritti pubblicati che non verranno restituiti; questi non possono essere pubblicati senza autorizzazione. La riproduzione, anche parziale, se autorizzata deve comunque citare la fonte. Eventuali collaborazioni danno diritto, salvo accordi particolari, solo a tre copie giustificative dei lavori pubblicati.

Iscritto allaUnioneStampaPeriodicaItaliana

PERIODICO QUADRIMESTRALE DELLA SOCIETÀ PANE QUOTIDIANO (1898)

indice

Direzione, Redazione, Pubblicità e Relazioni Stampa

Viale Toscana, 28 • 20136 Milano

Telefono 02-58310493 • Fax 02-58302734

www.panequotidiano.eu

[email protected]

Direttore Responsabile

Pier Maria Ferrario

Segretario di Redazione

Ercole Pollini

Relazioni Esterne

Cinzia Bianchi

Redazione

Gigliola Soldi Rondinini

Hanno collaborato:

Angelo Casati, Antonio Aràneo, Atanor, Enrica Franciolini, Ercole

Pollini, Francesco Licchiello, Gigliola Soldi Rondinini, Guido

Buffo, Mirta Serrazanetta, Renzo Bracco, Rodolfo Signifredi,

Umberto Accomanno, Vittoria Colpi.

Grafica e stampa:

Tipografia Vigrafica srl

Federico Ferrario

Viale gb Stucchi, 62/7 • Monza

tel. 039.20.28.028 • fax 039.20.28.044

www.vigrafica.com • [email protected]

Copertina:

Foto di Ivana Boris

Crudo e cotto - Francesco Licchiello

La dieta mediterranea (e l’UNESCO) - Renzo Bracco

Il ‘Colpo di Stato’ - Gigliola Soldi Rondinini

Si crede a ciò in cui si vuole credere - Guido Buffo

Dalla Coda alla Testa del Drago - Enrica Franciolini

La Flotta Templare - Angelo Casati

Esicasmo, lo Zen dell’Occidente - Rodolfo Signifredi

Stati Uniti: capitalisti del Nord, gentiluomini e schiavisti del Sud - Umberto Accomanno

Il disco di Festo: il più antico testo di lettere mobili Atanor

Venezia: realtà e utopie alla 13a Mostra Internazionale Vittoria Colpi

Gli enigmi nell’arte Bosch: Trittico delle delizie ovvero il trionfo di Satana - Mirta Serrazanetta

El guarnasc - Ercole Pollini

Cucina - Ercole Pollini

Zanzare

4

6

10

12

14

17

19

21

23

26

29

30

33

34

44

Il passaggio dallo stato na-turale a quello culturale fu compiuto in modo embrio-nale già ai tempi dell’homo erectus, un ominide vissuto tra i 1.600.000 e, in qualche luogo, i 30.000 anni fa.Infatti il Sinanthropus Peki-nensis (300 a. C.), i cui resti furono rinvenuti nella caverna di Zhoukoudien nelle vicinan-ze di Pekino (Beijing) ) usava vari utensili ed è quasi certo che usasse il fuoco per cuo-cere il cibo e un linguaggio per comunicare con gli altri.Quale cibo? La carne della selvaggina, radici, tuberi… All’homo erectus fece segui-to l’homo sapiens sapiens, nostro diretto antenato, giunto in Europa dall’Africa e dal Medio Oriente intorno a 45.000 anni fa, che eliminò, talvolta mangiandolo, l’homo

sapiens neanderthalensis che l’aveva preceduto e che era creatore di una superiore cul-tura materiale e spirituale.L’ominide si alimentava con la raccolta di frutti, radici, tuberi, foglie, insetti; succes-sivamente cominciò a man-giare anche la carne che si procurava attraverso lo scia-callaggio o la caccia. La carne veniva divorata cru-da, ma in seguito fu scoperto che cotta era più saporita e più digeribile e, rispetto a una laboriosa dieta erbivora o fru-givora, la dieta carnea ridu-ceva il volume dell’addome, rendeva l’uomo più agile nei movimenti e, con la riduzione dei tempi per cibarsi, si ave-va più tempo a disposizione per dedicarsi ad altre attività. Inoltre la caccia e l’assimila-zione delle proteine animali

predisponevano a una pro-nunciata aggressività.E’ stato accertato che, in luo-ghi e in epoche diverse, gli uomini primitivi del paleolitico praticavano il cannibalismo, cioè mangiavano altri uomini.Tra le varie ipotesi sul feno-meno del cannibalismo vi è quella secondo la quale gli uomini, vissuti per molti mil-lenni come cacciatori e quin-di come consumatori di pro-teine animali, quando diminu-irono le prede a causa della caccia o per cambiamenti climatici e ambientali, per continuare la dieta carnea, si cibarono dei loro simili. Intorno ai diecimila anni fa, a causa della diminuzione della selvaggina e per motivi di comodità ambientale, gli uomini da nomadi divennero stanziali inventando, o me-

glio, dandosi all’allevamento del bestiame e all’agricoltura. La loro dieta si arricchì mol-tissimo e così nacque la “cu-cina”. Aldilà della semplice descrizione dei cibi e della loro cottura, l’analisi strut-turale della cucina (cooking) rivela schemi, disegni, motivi da porre in relazione con la formazione della cultura.Il passaggio, il salto, dalla natura alla cultura si compì, dunque, anche con il passag-gio dal crudo al cotto, dalla dieta semplice a quella ela-borata.La cucina divenne una ca-ratteristica importante del comportamento umano cor-relato con il nutrimento che, con il sesso e l’esercizio del potere, è uno dei fondamenti della vita sia degli animali che dell’uomo.Nell’uomo, tuttavia, a diffe-renza degli animali, si com-pie il passaggio dalla natura alla cultura per cui l’alimen-tazione, il potere e il sesso assumono delle connotazioni diverse con le quali si struttu-ra la civiltà. Nell’umanità ogni processo materiale è socia-lizzato e produce delle rap-presentazioni culturali, cioè mentali.Le analisi strutturali di Lévi-Strauss sulle mitologie dell’A-merica Meridionale nell’opera Il crudo e il cotto del 1964, hanno messo l’accento sulle tre condizioni fondamenta-li in cui i cibi si presentano all’uomo, crudi, cotti o putri-di, che portano alla duplice opposizione crudo-cotto e fresco-putrido, che esprimo-no anche i significati di natura e cultura, vita e morte.I processi culinari cambia-no da una società all’altra e riflettono l’ambiente geo-grafico (flora e fauna), il re-perimento, lo sfruttamento delle risorse alimentari, le

Crudo e cotto Antropologia dell’alimentazione

Francesco Licchiello

55

tecniche culinarie e anche i miti e i tabù, come nel pasto totemico, in cui si mangia la carne dell’animale totem che rimanda all’origine della tribù e all’antenato comune. A questo proposito va ricor-dato che il sacrificio umano e il consumo comunitario delle carni del sacrificato, divenu-to strumento del rapporto tra l’uomo e la divinità, come nel simbolismo dell’eucaristia, era al centro di quasi tutte le religioni primordiali.Gli uomini preistorici aveva-no notato che la vita nasceva soltanto da esseri viventi e che si sosteneva consuman-do altre vite: piante, animali e uomini.Molte religioni si fondavano sull’assunto che la vita era nata dal sacrificio volonta-rio di un dio che aveva così creato l’umanità, per cui il sacrificio animale e quello umano, offerti agli dei, erano una ripetizione rifondativa e necessaria del sacrificio pri-mordiale.E’ evidente che gli uomini e gli animali si nutrono con-sumando organismi viventi, dalle piante agli altri animali. Solo pochi elementi come l’acqua e il sale sono inorga-nici.L’uomo è all’apice della ca-tena alimentare poiché man-gia gli altri viventi e in tempi remoti mangiava persino i suoi simili, la qual cosa non avviene nella stragrande maggioranza delle specie animali. Con l’invenzione dell’agri-coltura, in alcuni riti agrari,

le carni del sacrificato erano sparse nei campi per fecon-darli, come ricorda il mito di Iside e Osiride. Le operazioni culinarie sono un luogo d’interazioni tecni-che e nutrizionali, di rapporti sociali e di rappresentazioni culturali.Pertanto i cibi assumono: - valori sensoriali: sapore, odore, tatto, temperatura…, - valori estetici: apparecchia-tura, colori, forma…- valori culturali: tradizioni culinarie etniche e familiari, festività…- valori sociali: cucina e con-sumo dei pasti rapportati allo status o al ruolo sociale, convivialità… Il cibo acquista significa-ti emozionali e simbolici nel sociale e nelle religioni, come nell’offerta di cibo agli dei in vari culti primitivi o contemporanei e nella tran-sustanziazione del pane e del vino nel corpo e nel san-gue di Gesù nell’eucarestia a ricordo del suo sacrificio per riconciliare gli uomini con Dio. Alcune etnie distinguono tra cibo puro o impuro. Ad esempio gli ebrei con-sumano solo cibo kasher, i musulmani non mangiano la carne di maiale… Certamente noi siamo, per certi aspetti, ciò che mangia-mo o ciò che hanno mangia-to i nostri antenati. La scien-za nutrizionale ci dice che le varie popolazioni digeriscono e assimilano meglio i cibi che hanno consumato per millen-ni: si tratta di un adattamento

evolutivo. Tuttavia non abbia-mo ancora le conoscenze e le sperimentazioni adatte per accertare l’interazione tra il nostro soma, la nostra psiche e il nutrimento che assumia-mo; eppure questa interazio-ne esiste ed è rilevante. Per ora conosciamo, in parte, il rapporto tra nutrizione e ma-lattia. Scrive Lévi-Strauss: «Il siste-ma culinario è un linguag-gio nel quale ogni società codifica quei messaggi che le permettono di significare almeno una parte di ciò che essa è». Nell’odierna società del be-nessere, caratteristica del mondo nordoccidentale, l’ar-te culinaria (gastronomia) ha assunto una grande rilevanza economica, culturale e so-ciale.Un tempo si distinguevano nel mondo occidentale tre tipi di cucine, supportate dai ristoranti: la cucina france-se considerata raffinata, la cucina italiana apprezzata per ricchezza e sapore e la cucina cinese esotica e va-ria, sentita come popolare. A completamento della dif-fusione del globalismo sono apparse le cosiddette cucine “etniche” provenienti da ci-viltà e popoli diversi.L’industria cinematografica, a specchio della realtà am-bientale, mette in scena donne affaccendate in cuci-na e la televisione propone quotidianamente una grande quantità di ricette realizzate in ambienti culinari con bravi cuochi e presentatrici.

Fin dall’inizio della civiltà il pasto in comune assunse un aspetto sociale e sacra-le. Quelli che vi prendevano parte si riconoscevano fra-telli, compagni o amici. La convivialità è una delle mag-giori espressioni della socia-lità. Ancora oggi, presso al-cuni popoli, è grave peccato portare offesa a colui con il quale si è diviso il pasto.La convivialità non vuol dire soltanto “consumare insieme i cibi”. Convivialità è un modo di intrattenersi con gli altri, di comunicare, di partecipare, che trova la sua migliore espressione in quei momenti che accompa-gnano e seguono il pranzo, quando il pasto, le bevande alcoliche, l’aumento degli or-moni endorfine e ossitocina, hanno prodotto un’atmosfe-ra socio-affettiva in cui è pia-cevole immergersi.Il vino, assunto in giusta quantità, scioglie i condizio-namenti comportamentali, esalta l’immaginazione e spinge l’uomo a comunicare; e questo stato di leggera ec-citazione ed euforia si comu-nica anche all’astemio.La convivialità dilata la no-stra persona oltre le barriere del nostro ego, ci fa sentire gruppo, ci fa sentire elemen-to costitutivo di un tutto, del mondo, che non si dà mai nel singolo individuo, ma entro il rapporto con gli altri.La convivialità aiuta, inoltre, a superare i grandi malanni prodotti dall’attuale società: la solitudine, l’incomunicabi-lità, la droga.

66

Dopo aver fatto apprezzare ai nostri lettori le prelibatez-ze di formaggi e salumi, ci sembra doveroso ristabilire l’equilibrio nutrizionale par-lando di… dieta. Natural-mente non di una delle tante diete che circolano da anni in Italia e nel mondo, bensì del-la “madre di tutte le diete”: la dieta mediterranea. A qualcuno può essere sfug-gita una notizia molto im-portante: il 16 novembre del 2010, la quinta Sessione del Comitato intergovernativo dell’Unesco ha incluso la die-ta mediterranea nella Lista del Patrimonio immateriale dell’Umanità, accogliendo la proposta del Ministero delle Politiche agricole. Non ci spaventi qui il termine dieta (dal greco diaita): sta a significare semplicemen-te “stile di vita”, ovvero l’in-sieme delle tradizioni, delle conoscenze alimentari, dei sapori e delle competenze che hanno caratterizzato le popolazioni del Mediterra-neo. Trattasi di un modello nutrizionale costituito prin-cipalmente da olio d’oliva, cereali, frutta, spezie, una moderata quantità di car-ne, pesce e latticini: il tutto accompagnato dalla giusta quantità di vino, nel rispetto del territorio e dei tradizionali mestieri dei popoli mediter-ranei, collegati all’agricoltu-ra, viticultura e pesca.Le origini di quella che oggi definiamo “dieta mediterra-nea” risalgono alle abitudini alimentari dell’antica Grecia e dell’impero Romano, e si sono mantenute quasi inva-riate fino ai giorni nostri. Ma i suoi benefici per la salu-te furono individuati solo nel 1940 da un fisiologo ameri-cano, Angel Keys, durante il suo soggiorno a Creta, dove si trovava al seguito delle

truppe alleate. Nelle sue os-servazioni, si accorse che nell’isola l’infarto miocardico era pressoché sconosciuto, facendone risalire l’origine al tipo di alimentazione, pra-ticato da secoli. Negli studi successivi, condotti in sette diversi Paesi, arrivò alla con-clusione che negli abitanti dei paesi mediterranei, data il basso livello di colesterolo, si registrava una minore inci-denza di infarto. Nello stesso periodo, la connessione tra alimentazione e malattie del ricambio fu intuita anche dal medico nutrizionista geno-vese Lorenzo Piroddi, cui si deve il libro Cucina mediter-ranea.Praticare la dieta mediterra-nea non è difficile: molti dei suoi prodotti cardine vedono l’Italia al vertice della pro-duzione mondiale. Basterà citare la pasta, il vino, l’olio

d’oliva, la conserva di po-modoro, la verdura e la frutta (anche se quest’ultima viene oggi massicciamente impor-tata persino da paesi extra-europei, quali Israele, Cile, Argentina, Sud Africa e Cina: nei supermercati italiani si può trovare facilmente l’a-glio cinese. Se si pensa che le esportazioni italiane negli Stati Uniti iniziarono nel pri-mo Novecento proprio con l’aglio - e su ciò fu basata la costituzione della Camera di Commercio Italo-americana di New York - si capisce quanto in un secolo sia cam-biato il mondo!).L’olivo. È l’elemento fonda-mentale della dieta mediter-ranea: tracce fossili ne testi-moniano la presenza ancor prima della presenza dell’uo-mo. La sua coltivazione iniziò in Siria, quindi passò a Creta, e fu poi diffusa dai Fenici su

tutte le coste del Mediterra-neo. Furono però i Romani a perfezionare gli strumenti utilizzati per la spremitu-ra delle olive, e le tecniche di conservazione dell’olio. Questa sorta di elisir fu uti-lizzato sopratutto in cucina, ma anche per cosmesi e per illuminazione; l’ulivo divenne anche simbolo di pace già nelle Sacre Scritture, e sim-bolo di vittoria nella Magna Grecia. Si narra che Giove, per pre-miare chi avesse fatto il mi-glior dono agli uomini, lo regalò ad Atena, ritenendolo più utile persino del cavallo, donato da Poseidon. Anche se l’olio appare quotidiana-mente sulle nostre tavole, vediamo di conoscerne me-glio le proprietà. L’olio d’o-liva è costituito per oltre il 90% da grassi insaturi, che non creano accumulo di co-lesterolo; è ricco di vitamina E e di altri composti organici che costituiscono la vitamina P, contribuendo al manteni-mento in buone condizioni dei capillari sanguigni. Le al-tre proprietà: è altamente di-geribile, favorisce le funzioni gastro-intestinali, ha un be-nefico effetto sulla funzione epatica favorendo il flusso biliare; infine favorisce l’as-sorbimento di tutte le vitami-ne liposolubili. Consumato nelle giuste dosi, l’olio extra-vergine è indicato a tutte le età. Molto digeribile anche per i bambini, è consigliato agli adulti perché ricco di an-tiossidanti. Quale scegliere? Non c’è che l’imbarazzo del-la scelta - e del gusto: sono oltre 500 le coltivazioni di ulivi, con oltre 300 varietà, praticamente in tutte le re-gioni d’Italia. Per chi volesse saperne di più, consigliamo di visitare il Museo dell’Olivo, sito a Imperia-Oneglia, che

La dieta mediterranea(e l’UNESCO)

Renzo Bracco

77

illustra i suoi 10.000 anni di storia.

I cereali. Da millenni rappre-sentano un alimento fon-damentale dei paesi medi-terranei: coltivati nelle zone temperate, furono alla base della creazione dei primi vil-laggi stanziali, e ancora oggi sono una delle fonti primarie per l’alimentazione dell’uo-mo. Già noti e molto utiliz-zati al tempo dei romani (il lemma “cereale” origina da “Ceres”, dea della coltivazio-ne) comprendono il frumen-to - sinonimo di grano, nelle sue diverse varietà: l’avena, la segale, l’orzo, e il farro, mentre il mais comparve nel Mediterraneo solo dopo la scoperta dell’America. Sono ricchi di fosforo, proteine e glutine (ahimè, molto danno-so per gli affetti da celiachia, allergia al glutine sempre più frequente: oggi sono un mi-lione i colpiti solo in Italia). La produzione del frumento duro è in continua espan-sione, a seguito del costante aumento del consumo di pa-ste alimentari, mentre si sta riscoprendo la coltivazione

del grano saraceno.

I legumi. Meglio noti come “la carne dei poveri”, pre-sentano un elevato contenu-to di proteine e di carboidrati a lento assorbimento, ovve-ro a basso indice glicemico. Della famiglia delle legumi-nose, i più diffusi sulle nostre tavole sono le lenticchie, i ceci, le fave, i piselli, i lupini - tuttora venduti sulle ban-carelle romane - e sopratutti i fagioli, originari dell’Ameri-ca centrale, nelle loro molte varietà: borlotti, cannellini, bianchi di Spagna, lamon del Trentino, messicani (ot-timi per il chili), brasiliani (componenti di base della fejoada, che si arricchisce con erbe aromatiche, aglio, cipolla e soprattutto con la calabresa, salsiccia piccante di chiara origine italiana). Per i calciofili, annotiamo che la ricetta della fejoada spiega perché i calciatori brasiliani tornino dalle vacanze in Bra-sile sempre in sovrappeso…

Frutta e verdura. È persi-no troppo banale ricordare che si dovrebbe consumare

quotidianamente la quantità ideale: 5 porzioni di frutta e verdura.I loro vantaggi sono indubbi: di fronte a un ridotto potere calorico, generano un senso di sazietà che limita l’assun-zione eccessiva di altri cibi. Inoltre, la grande quantità d’acqua contenuta - nel-la frutta anche superiore al 90% - è particolarmente preziosa nelle calde giornate estive, per aiutare a integrare i liquidi perduti. E poi ci sono le vitamine: ci limitiamo a se-gnalare le principali, mentre per i loro benefici sarebbe necessario un trattato a par-te.Vitamina A: cedri, meloni (utile per la formazione della vitamina C)Vitamine B1,B2,B3,B5: dat-teri, arachidi, noci, pinoli, pi-stacchi.Vitamina C: agrumi, kiwi, meloni, pomodori, peperoni, verdura a foglia verdeVitamina E: noci, avocado, asparagiVitamina K: cavoli, spinaci, cime di rapaInoltre la frutta e la verdura contengono numerosi mine-

rali, molto utili all’organismo, e in forma facilmente assimi-labile: calcio, cromo, ferro, iodio, magnesio, potassio, selenio, sodio, zinco.

Carne e pesce. La dieta mediterranea consiglia un consumo di pesce più ab-bondante rispetto alla carne. È la storia stessa dei paesi mediterranei che da sempre ha visto abbondare il pesce - specie quello azzurro - sul-le tavole dei suoi popoli: in-fatti contiene proteine, acidi grassi essenziali al metabo-lismo e alcuni sali minerali. Quanto alla carne, da privile-giare la carne bianca (pollo, tacchino, coniglio, cappone, faraona, galletto, gallina), in quanto ricca di proteine, e con un basso tenore di gras-si.Da non trascurare, di questi tempi, il rapporto qualità/prezzo! Molto versatili per la loro cottura, si prestano a preparazioni semplici e gu-stose: basta citare il pollo al limone o il petto di faraona al porto; sempre ottime e facili le cotture al forno. Si consi-glia anche la cottura su pia-

88

gliare a listelle le foglie di due cespi di lattuga, ridurre a rondelle la cipolla; scal-dare l’olio extravergine, far appassire la cipolla a fuoco basso. Aggiungere la lattuga e continuare la cottura per 5 minuti, salare e pepare. Ver-sare un bicchiere di brodo vegetale nella casseruola, coprire e cuocere per 10 mi-nuti. A fine cottura, togliere il coperchio, alzare il fuoco e ridurre il sugo di cottura me-scolando bene.

Carbonara di porro. Affetta-re la parte verde di 2 porri e marinarla con sale gros-so per 20 minuti. Liberare i porri dal sale, sciacquarli e farli saltare in padella con olio extravergine. Lessare la pasta, nel formato a gra-dimento: penne, spaghetti o altro; sbattere due uova con poco olio, 2 cucchiai di for-maggio grattugiato (pecori-no e/o parmigiano, a scelta), sale, pepe e, se piace, noce moscata. Versare la pasta, al dente, nella padella, a fuo-co spento, e condirla con le uova e i porri saltati.

e alimentarle con mangime non trattato chimicamente, che escluda totalmente l’uso di antibiotici, ormoni o altri prodotti di sintesi. Infine per la lavorazione, la trasforma-zione e la conservazione si deve ricorrere a metodi che non facciano uso di sostan-ze chimiche. Queste regole sono contenute nella nor-mativa CE 834/07, che defi-nisce anche l’etichettatura, per individuare il paese d’o-rigine, l’organismo di con-trollo (ma qui sorge qualche dubbio…), la trasformazione del prodotto e persino il nu-mero dell’autorizzazione alla stampa delle etichette.

Conclusione: come recita un vecchio adagio, “l’uomo è ciò che mangia”.Cerchiamo di mangiare “me-diterraneo”!

Ma non possiamo conclu-dere questo articolo senza proporre un paio di ricette, molto “mediterranee” e cer-tamente salubri.

Foglie di lattuga stufate. Ta-

lo, contribuendo a prevenire o a ritardare il declino cogni-tivo, oltre ai benefici effetti più noti, quelli nei confronti delle malattie cardiovasco-lari.

I prodotti biologici. Da alcu-ni anni si vanno diffondendo anche in Italia i prodotti bio-logici, che provengono da coltivazioni che escludono i prodotti chimici di sintesi, nel pieno rispetto dell’ambiente. Come fertilizzanti, vengono usati concimi organici e mi-nerali naturali; per la difesa dai parassiti, solo prodotti e sistemi di origine naturale e a basso impatto ambientale. Un prodotto per essere clas-sificato “bio” deve rispon-dere ad alcune norme: colti-vazione lontana da possibili fonti di contaminazione, qua-li fabbriche, autostrade, fonti inquinanti, ecc. Il suolo può essere convertito al bio solo dopo una pausa di almeno due anni, perché nel terreno vi potrebbero essere ancora residui di fitofarmaci; per i prodotti di origine animale si devono selezionare le razze,

stre di ardesia, oggi reperibili in commercio, in particolare nel ponente ligure, in omag-gio al tipo di cottura del’uo-mo preistorico, che cuoceva la cacciagione su pietra ro-vente.

I benefici . Sono stati citati i grassi insaturi e gli antiossi-danti. I primi sono contenuti in gran quantità nell’olio ex-travergine e nei pesci, men-tre i grassi animali, saturi, sono nocivi alle arterie. Se assunti nelle giuste quantità, fanno calare il livello di LDL (il cosiddetto colesterolo “cattivo”) mentre tendono ad aumentare l’HDL, il coleste-rolo “buono”. Gli antiossi-danti invece sono sostanze prodotte dalle piante a dife-sa della loro stessa struttura: si oppongono all’ossidazio-ne prodotta dai radicali liberi, dannosi all’organismo.Si ritrovano nell’olio d’oliva, ma anche nel vino rosso e in molte verdure.Concludendo, gli studi più recenti sugli effetti della die-ta mediterranea provano che ha effetti protettivi sul cervel-

QUANDO BEVI IL LATTE TI SENTI UN PALLONE?

www.granarolo.it

La Grande Passione per l’Alta Qualità.

Latte Granarolo Accadì.Digeribile anche da chiha difficoltà con il lattosio.Grazie alla scomposizione del lattosionei due zuccheri che lo costituiscono,più facilmente assimilabili,puoi ritrovare il piacere del latte.Granarolo Accadì. Più digeribile di così!

Granarolo Accadi - Che vi do 210x297.indd 1 01/06/11 11:22

1010

Che cos’è un ‘colpo di Sta-to’? È uno dei fenomeni oggi più frequenti, ma tra i meno conosciuti e più discus-si come tecnica, usato per risolvere le crisi politiche, quale metodo quasi univer-sale di accesso al potere e di controllo illegittimo del governo, e quindi merita una breve analisi.Il termine è nato nel secolo XVII e in Francia e il primo che ne parlò, e forse inven-tò il termine, fu Gabriel Nau-dé, che pubblicò nel 1639 le Considerations politique sur le Coup d’État a uso esclu-sivo del cardinale romano Niccolò Guidi. Tale termine rimase in uso e comparve in tutti i dizionari; in particolare, nella lingua inglese non ven-ne tradotto e rimase coup d’État.Secondo Naudé il ‘colpo di Stato’ poteva essere giusto, se favoriva il bene comune, o ingiusto se era attuato per

interesse personale e, co-munque, doveva essere l’ul-timo strumento a cui poteva ricorrere un principe per sal-vare il potere, aveva quindi il carattere di ultima risorsa per la sua conservazione e uno scopo del tutto difen-sivo, non tendendo al suo ampliamento. Per Naudè si trattava di prendere le redini dello Stato, non di abbatter-lo, eliminare una leadership ritenuta inetta, o una fazioni privilegiata, o ancora, inteso come azione che si svolge dall’interno all’esterno, era praticabile quando colui che deteneva il potere sentiva il bisogno di colpire con forza per rinvigorirlo. I caratteri fondamentali del ‘colpo di Stato’ erano e sono visti in particolare nella se-gretezza nella fase di pre-parazione e nella necessità di una celere attuazione una volta iniziato, il che gli dà la caratteristica di atto imme-

diato e inaspettato, quale evento cospirativo il cui ri-sultato non è affatto garanti-to perché può fallire in ogni momento sia della prepa-razione che dell’attuazione. Da non trascurare però il suo carattere violento, poiché la sua esecuzione richiede un trasferimento del potere da realizzare con la forza o mi-nacciando di ricorrervi.Il ‘colpo di Stato’ si differen-zia poi da altri tipi di attacco al potere costituito quali la congiura di palazzo, le ribel-lioni, la jacquerie, l’insurre-zione, dalle quali differisce perché si svolge in modo ordinato, ragionato e meto-dico, con un’apparenza di legalità. In definitiva, il golpe (nella dizione spagnola di-ventata usuale) non intende abbattere definitivamente il regime precostituito portan-do avanti un programma po-litico o una particolare ideo-logia, ma mira alla conquista

o al controllo del governo, senza modifiche particolari del regime politico, del siste-ma economico o del sistema sociale e culturale esistente. Il ‘colpo di Stato’ si svolge quindi in circostanze ecce-zionali con l’intento di creare eccezioni a vecchie rego-le e creare nuove regole da queste eccezioni, ponendo i problemi in termini di finalità e giustificazione.Oggi, visto l’uso che ne è stato fatto dal secolo XX so-prattutto nei Paesi sudame-ricani, la storiografia gli ha riservato una notevole atten-zione e sono state elabora-te, nell’ambito delle scienze sociali, quattro teorie di base che ci consentono di valuta-re il suo peso in rapporto alle situazioni politiche e costitu-zionali degli Stati in cui viene attuato: in particolare sem-pre all’interno del processo di sviluppo di crisi politiche, ma prendendo in conside-razione il livello di sviluppo economico, il tipo di organiz-zazione politica, l’organizza-zione militare, e via dicendo.Storicamente, possiamo andare molto indietro: altri pensatori avevano riflettuto su questioni relative all’uso e all’abuso del potere, sul-la natura della dominazione del tiranno, sulle circostan-ze che possono giustificare sui sudditi l’uso della forza da parte dei governanti. Ad esempio, Aristotele parla dei ‘segreti dei principi’, Tacito, degli arcana imperiorum in-tendendo le regole usate per la conservazione dello Stato in funzione esclusiva del-la considerazione del bene pubblico e non del diritto; gli imperatori romani si suc-cedevano spesso tramite le congiure militari di solito at-tuate senza un piano preme-ditato; nel Medioevo i ‘colpi

Il ‘Colpo di Stato’

Gigliola Soldi Rondinini

1111

di Stato’ - sebbene non esi-stesse uno Stato come oggi - furono numerosi in Italia, in Francia, in Inghilterra, in Svezia, dal momento che i nobili che sostenevano il potere del re o del principe vigilavano affinché non dive-nisse tirannia, nel qual caso eliminavano il re, come lo eli-minavano quando non aveva a cuore il bene pubblico, o era un rex inutilis. In segui-to, l’Illuminismo non vi pre-stò attenzione, ma neppure i ‘colpi di Stato’ avvenuti tra il 1744 e il 1799 furono con-siderati insegnamenti impor-tanti, a eccezione di quello

del 18 brumaio 1799 (9-10 novembre 1799, Napoleone imperatore) che ancora oggi è un esempio di golpe parla-mentare: in una monarchia assoluta si sarebbero veri-ficate congiure di palazzo o sedizioni militari. Visto dun-que all’inizio in modo favo-revole, cominciò ad avere un’interpretazione negativa, sebbene non da parte di tutti gli storici, da quello del 2 dicembre 1851 attuato da Luigi Napoleone Bonaparte che divenne imperatore di Francia, ma, verso la fine del secolo, fu screditato come fenomeno politico e consi-

derato sinonimo di violazio-ne dei diritti civili e politici. La tendenza al rifiuto mora-le e giuridico del golpismo fu rinforzata dalle opinioni di alcuni celebri intellettuali del tempo, a cominciare da Victor Hugo, che scrisse l’Hi-stoire d’un crime e Napoleon le petit chiaramente alluden-do al colpo di stato del 2 dicembre 1851, e Marx, che attraverso il colpo di Stato di Luigi Napoleone, intende-va raccontare il processo di scontro crescente fra le clas-si sociali che sfociava in un colpo di Stato come svilup-po logico delle contraddizio-ni all’interno delle varie fazio-ni, che, però in ultima analisi, favorirono il rafforzamento e il perfezionamento burocrati-co dello Stato. Il fenomeno del golpismo è notevolmente aumentato dopo la Seconda Guerra Mondiale, soprattutto a cau-sa dell’instabilità socio-politi-ca dei Paesi del Terzo Mondo impegnati nella lotta per l’in-dipendenza e per i processi di integrazione e di sviluppo dopo il colonialismo, ed è spesso attuato dai militari, oggi ormai perfettamente

organizzati e, in alcuni casi partecipanti alla vita politica dello Stato.

Il golpismo come causa ed effetto dunque dell’instabilità politica? È un interrogativo da non trascurare, dal mo-mento che la maggior parte degli analisti ha visto in esso la causa principale dell’inde-bolimento del potere politico e, secondo me, non occorre andare tanto lontano, ma si può guardare in casa nostra e agli eventi di un anno fa.

Bibliografia

E. GONZÁLEZ CALLEJA, Nel-le tenebre di brumaio. Quattro secoli di riflessione politica sul colpo di Stato, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, Bibliote-ca della «Nuova Rivista Storica», 2012.

G.SOLDI RONDININI, Colpo di Stato nel Medioevo? Un’ipote-si di ricerca, in «Nuova Rivista Storica», III, 2012, fascicolo mo-nografico dedicato al “colpo di Stato”’.

1212

Il termine Demagogia, ben noto a tutti noi, ha origini greche. È composto da de-mos (popolo) e aghein (tra-scinare); indica il compor-tamento - politico - di chi, attraverso false promesse vicine ai desideri del popo-lo, mira ad accaparrarsi il suo favore. La definizione, puntuale e sintetica, è ac-cessibile da chiunque abbia una connessione internet, al sito - utile e prezioso - di Wikipedia.Nella nostra cultura, che molto deriva da quella greca classica, il termine demago-gia è quasi indissolubilmen-te legato al mondo e alle terminologia della politica. Demagogo è - da Tulcidide in poi - l’agitatore di popolo che specula sull’ingenuità e sui sentimenti. Personag-gio dipinto con i colori del cinismo, dell’oratoria che declina in affabulazione, dell’intelligenza che decade in furbizia, il demagogo è un profondo conoscitore del suo ambiente, del quale conosce i sentimenti - più spesso inespressi - e sa agi-re le leve, anche le più na-scoste.Difficilmente il demagogo mente in modo spudorato; più spesso edulcora, ac-

compagna il pensiero, sor-regge il sentire, accelera reazioni già latenti, dà voce al silenzio. Il suo linguaggio è quello della sua platea, della quale assorbe e riflet-te - con enfasi e maestria - la cromia delle emozioni e delle pulsioni più recondite. Il suo modo di agire è pre-ciso, puntuale, teso a prati-cità, votato a efficacia: è un comunicatore che ha quale scopo il generare ricono-scenza e adesione.In questo senso, il dema-gogo ha la sua controparte nell’adulatore. Così come il primo si muove per assicu-rare e confermare il potere di chi è chiamato - o si can-dida - a governare il popolo (il demos degli antichi greci), il secondo agisce per assi-curare il favore del potente a se stesso o ai suoi. Un unico modo di muoversi, lo stesso obiettivo imprescindibile di utilità, il medesimo bagaglio di furbizie oratorie e tecni-che relazionali, seppure agiti in direzioni apparentemente opposte.Così come nella fiaba di Andersen Il vestito nuovo dell’Imperatore, uno solo osò dire che sua maestà girava nudo per la strada - peraltro generando scan-

dalo - allo stesso modo, il demagogo e l’adulatore non trovano facili smentite. La verità, infatti, non è sempre un messaggio facile da tra-smettere, e su questa diffi-coltà a intendere la verità queste due figure fanno pa-rallelo affidamento.Non è possibile sbugiarda-re il demagogo senza ac-cettare di fare i conti con la verità dalla quale egli cerca di distrarci, senza assumer-si la responsabilità di voler sapere quali siano i fatti, le circostanze, le necessità. Il demagogo vince perché noi abdichiamo il nostro desi-derio di voler comprende-re come davvero stanno le cose, abdichiamo la nostra responsabilità di sapere e fare. Il demagogo vince per-ché noi - pur coscienti della sua dolce menzogna - ab-biamo deciso di abbando-narci alle sue melliflue pa-role come i topi seguirono la dolce melodia del pifferaio di Hamelin. Così d’altronde è per l’a-dulatore, che vince perché - come uno specchio defor-mato - ci rimanda l’immagi-ne di noi come vorremmo essere, e non come siamo. Riconosce le nostre debo-lezze, blandisce le nostre pi-

grizie, culla il nostro ego so-gnante e ci fa sentire bene, consegnandoci l’immagine di noi che avremmo sempre voluto vedere: intelligenza, capacità, bellezza, potenza.In entrambi i casi - il demos dinanzi al demagogo, e il po-tente dinanzi all’adulatore - ciò che mostra essere de-cisivo è il ruolo dell’avidità e dell’indifferenza. Quando l’appetito della brama ha promessa di soddisfazio-ne, il resto - tutto il resto - è fastidio, tacitato dall’indif-ferenza: la cupidigia instu-pidisce, e la promessa di soddisfazione è una droga alla quale difficilmente si resiste.Unico antidoto, pare: la ri-cerca della coerenza. Se una cosa è vera, dovreb-be essere difficile compor-tarsi come se non lo fosse; l’affermazione fatta dovreb-be implicare delle conse-guenze; una promessa do-vrebbe essere mantenuta; l’apprezzamento dovrebbe avere qualche riscontro con la realtà. Questo, in linea generale, è quanto inse-gnammo ai nostri figli, per ducarli alla verità, al rispet-to, al vivere civile. Siamo rimasti coerenti con noi stessi?

Si crede a ciò in cui si vuole credere

Guido Buffo

Grazie...

1414

Enrica Franciolini

Da quando siamo entrati nell’Era dell’Acquario, stu-diare le vite precedenti, at-traverso tecniche appropria-te, dall’ipnosi al rebirthing, è diventata un’esigenza che molte persone sentono. La teoria del karma si basa su leggi molto complicate, che a volte sono state un po’ banalizzate nel corso del tempo, dalla letteratura spe-cialistica e no, leggi che de-vono tener conto della com-plessità dell’essere umano e di tutte le componenti che lo costituiscono, e soprattut-to del fatto che ciascuno di noi ha un percorso evolutivo unico e irripetibile, come di fatto è il nostro tema natale, o oroscopo.Prima di descrivere come l’Astrologia si occupa dell’ar-gomento, vorrei precisare alcuni concetti relativi al kar-ma.

La prima cosa da chiarire è che il karma non è una legge “punitiva”, quindi per prima cosa libererei il campo dal peso moralistico che spesso si attribuisce al karma, e che potremmo riassumere così: “sono stato “cattivo” nella vita precedente, quindi, ora è giusto che io “paghi” con l’infelicità. In realtà., che ci piaccia o no, la legge del karma ha basi scientifiche, dove per scien-za si intende applicazione meccanica e impersonale di una serie di leggi, applicate però non solo al corpo fisico ma anche e soprattutto ai corpi Eterico, Astrale e Men-tale, che ci costituiscono a un livello sottile. La Fisica classica, per la precisione la Dinamica, ci assicura che esiste una legge, detta di causa – effetto, secondo la quale ogni azione compiuta,

provoca necessariamente un effetto, e inoltre la legge dell’azione - reazione chiari-sce ancor meglio il fatto che, a ogni azione corrisponde una reazione uguale e con-traria. Anche nella fisiologia umana avviene una cosa si-mile: per esempio, esistono i muscoli estensori e abduttori per cui, per far muovere un muscolo, ce ne deve esse-re necessariamente un altro che compia l’azione con-traria. Ebbene, le leggi del Karma estendono i risultati dell’applicazione di queste leggi fisiche ai mondi invisi-bili, per cui, qualunque azio-ne l’essere umano compia, produce un effetto. Pertanto, se tutte le mie azioni produ-cono effetti che non si esau-riscono in questa vita, ecco che saranno necessarie altre incarnazioni affinché ogni effetto possa manifestarsi.

Quello che complica terribil-mente le cose è il fatto che anche il pensiero produce ef-fetti, di cui la legge deve te-nere conto: da qui si capisce bene quanto sia impossibile o per lo meno difficile per noi generalizzare, tirando facili quanto inesatte conclusioni.Un altro punto fondamentale da capire è che ogni vita ha un percorso evolutivo e che, la mia vita attuale, qualun-que essa sia, mi pone a un livello evolutivo di partenza superiore rispetto a quello della vita precedente e que-sto a prescindere dalla posi-zione sociale occupata. Tutti i debiti e I crediti karmici che mi porto dalle vite preceden-ti vanno estinti esattamente con la persona o meglio con l’entità con cui lo si è contrat-to. Ecco perché nella nostra vita attuale incontriamo le stesse persone delle nostre

Dalla Coda alla Testa del Drago:una sfida affascinante!

1515

vite precedenti, con le quali però cambiano i giochi delle parti. Poiché non è possibi-le incontrare in un’unica vita tutte le persone con cui si è avuto a che fare, sia per mo-tivi di spazio, che di tempi diversi di incarnazione, ecco che sono necessarie molte vite per poter estinguere tutti i nostri debiti.Tutto ciò che odiamo, tutte le persone che abbiamo odiato o disprezzato, dovremo rin-contrarle, per poter trasfor-mare quell’energia negativa in positiva, o per lo meno dovremo chiudere il legame che trattiene la nostra evolu-zione, in quanto l’odio crea legami profondi quanto l’a-more.Anche il suicidio va svin-colato da considerazioni di peccato in cui è sempre sta-to relegato, bensì va visto come un “errore” evolutivo. Infatti, molti studiosi con-cordano sul fatto che l’ani-ma del suicida resta sulla terra, anche se non incar-nata, fino al momento del-la morte prevista per quel corpo, e inoltre, bloccando il suo percorso evolutivo, l’anima dovrà riaffrontare nella prossima vita situa-zioni analoghe a quelle che l’hanno spinta a quel gesto.Quando chiudiamo un ciclo, per esempio affettivo, lavo-rativo, o abitativo, al fine di non trascinare nulla dietro di noi, dovremmo diventare consapevoli che quell’espe-rienza, per quanto dolorosa e difficile, non è stata una perdita di tempo, ma al con-trario una necessaria tappa delle nostra evoluzione, Da questa comprensione pro-fonda, nasce la liberazione definitiva dall’ esperienza stessa.Altro punto interessante è il percorso compiuto dall’Ani-ma in evoluzione fra una vita e l’altra. Ci sono molte teo-rie di esoteristi e studiosi in proposito, ma molti concor-dano sul fatto che ci sono dei tempi prestabiliti fra una vita e l’altra, che possono essere in certi casi abbre-viati, ma in linea di massima ci sono degli “iter” da rispet-tare.

La prima cosa da fare per l’entità che si ritrova di là, è guardare la propria vita, senza pretese di giudizio, né tanto meno di condan-na, semplicemente per fare una sorta di bilancio delle “mete” spirituali, evolutive raggiunte. Segue poi una fase di revi-sione specifica, nel dettaglio di ogni azione e pensiero si-gnificativo della propria vita. Secondo Steiner occorre un terzo del tempo della vita vissuta per compiere questa revisione.Infine, segue la fase di scel-ta e determinazione da par-te dell’Entità, della prossima incarnazione, scelta molto difficile, in quanto si dovrà tenere conto dei debiti, ma anche dei crediti, nonché delle persone da incontrare di nuovo e delle situazio-ni da riaffrontare. A questo scopo, l’Entità viene aiuta-ta dai cosiddetti “Spiriti del Karma” Vediamo ora come l’Astro-logia karmica si inserisce in questo contesto. Cosa non deve fare. L’Astro-logia karmica dovrebbe evi-tare di addentrarsi in perico-lose, quanto poco credibili descrizioni di dettagli sulle vite precedenti, poiché la semplice curiosità di sapere dove e in che modo si svol-gesse la nostra vita passata, per quanto pittoresca sia, non ci porta molto lonta-no. L’Astrologia non utilizza tecniche di regressione, in quanto non si occupa dei dettagli delle nostre vite precedenti, bensì delle dina-miche psicologiche e spiri-tuali che ci derivano, come eredità karmiche, da vite precedenti e vanno dunque risolte in questa vita.Cosa deve fare. Un tema karmico deve considerare i principali punti nodali di un oroscopo, per capire in che modo la presente in-carnazione, in questo se-gno zodiacale e con tutte le problematiche indicate dal tema stesso, è ottima-le per smaltire i pesi che ci portiamo dietro e aiutarci ad andare oltre.Un tema natale karmico si

occupa del karma dell’indi-viduo a vari livelli.Si comincia con il karma et-niaco, relativo al luogo e alla etnia di appartenenza, per passare poi al karma di tipo sociale, religioso e infine, quello familiare, tutti con-dizionamenti molto pesanti che influenzano in maniera importante la nostra vita.L’Astrologia karmico evo-lutiva si occupa dunque di analizzare alcuni punti dell’oroscopo che danno delle indicazioni, non tanto sui dettagli delle vite prece-denti, quanto piuttosto sulle eredità positive e negative, sugli strascichi, i punti da risolvere, e soprattutto, offre degli spunti evolutivi, basati esclusivamente sull’utilizzo del libero arbitrio.In effetti, l’Astrologia esote-rica, così poco amata dagli astrologi classici, è l’unica branca dell’Astrologia che lascia parecchio spazio al libero arbitrio, spingendosi ben oltre le normali previsio-ni astrologiche, che siamo abituati ad ascoltare.Molto semplice è infatti, sen-tire, o “leggere” gli eventi in un giro di carte, o in una lettura astrologica normale; ben altra cosa è individua-re i punti deboli che ci de-rivano da vite precedenti e sentirci dire in che direzione potremmo andare, per evol-vere e superare certi stati di coscienza. Si capisce bene quanto siano differenti le due posizioni e quanto più sem-plice sia dire alla gente cosa le accadrà, senza tanti pos-sibilismi. L’Astrologia indiana e anche quella araba basano molte delle loro teorie interpretati-ve sui punti karmici, che non sono affatto punti celesti, bensì punti virtuali ricavati da calcoli e leggi numeriche applicate al tema natale di base, a testimonianza di quanto la teoria del karma sia radicata profondamen-te nelle più antiche culture astrologiche. Nell’analisi di un tema nata-le karmico evolutivo in seno all’Astrologia occidentale, voglio parlarvi di due punti particolarmente interessanti

e cioè dei Nodi Lunari, detti rispettivamente Nodo Luna-re Nord o Testa del Drago, e Nodo Lunare Sud, o Coda del Drago.Essi sono due punti disposti in posizione diametralmente opposta nel cerchio zodia-cale, cosicchè se uno è, per esempio, a 20° Bilancia, l’al-tro sarà a 20° Ariete, e così via.Dunque, anche i loro signi-ficati sono opposti, ma col-legati e il percorso evolutivo dell’individuo consiste nel passare dall’energia dell’uno all’energia contenuta nell’al-tro, compiendo un percor-so per niente scontato, per niente facile, insomma una vera e propria sfida!Il Nodo Lunare Sud rappre-senta la nostra “eredità kar-mica”, nel bene come nel male, e cioè i talenti che pos-sediamo in questa vita, cioè i doni, le facilità che spesso ci derivano dal fatto che ce le siamo portati dietro vita dopo vita, ma anche i limiti, le paure, oppure i rapporti sbagliati che ci trasciniamo nell’arco del tempo senza ri-uscire mai a risolverli.Di contro, il Nodo lunare Nord, rappresenta una dif-ficoltà, o meglio, una sfida, in quanto sta alla persona riuscire a sciogliere il karma passato contenuto nel Nodo lunare Sud per arrivare a re-alizzare il contenuto di quello Nord.Dalla coda, cioè dalla par-te del Drago contenuto in ognuno di noi, rivolta verso il passato, alla Testa del Dra-go, cioè la parte rivolta verso il futuro : questo è il percorso evolutivo che ci viene chie-sto di compiere.

Qui di seguito è pubblicata la tabella delle posizioni del Nodo lunare Nord dal 1930 a oggi, nella quale ciascuno di voi potrà trovare la sua posizione nel proprio tema natale.Sarebbe bello poter valutare anche il settore o casa astro-logica in cui il Nodo si posi-ziona, ma questo diventa un discorso personalizzato, che non è possibile inserire in un contesto generale.

1616

4

Data di nascita Nodo lunare nord Data di nascita Nodo lunare nord1930 dall’1-1 al 7-7 Toro 1960 dall’1-1 al 31-12 Vergine

dall’8-7 al 31-12 Ariete 1961 dall’1-1 al 10- 6 Vergine1931 dall’1-1 al 28-12 Ariete dall’11-6 al 31-12 Leone

dal 29-12 al 31-12 Pesci 1962 dall’1-1 al 23-12 Leone1932 dall’1- 1 al 31- 12 Pesci dal 24-12 al 31-12 Cancro1933 dall’1- 1 al 24 -6 Pesci 1963 dall’1-1 al 31-12 Cancro

dal 25 –6 al 31-12 Acquario 1964 dall’1-1 al 25-8 Cancro1934 dall’1-1 al 31-12 Acquario dal 26-8 al 31-12 Gemelli1935 dall’1-1 all’8-3 Acquario 1965 dall’1-1 al 12-12 Gemelli

dal 9-3 al 31-12 Capricorno 1966 dall’1-1 al 19-2 Gemelli1936 dall’1-1 al 14-9 Capricorno dal 20-2 al 31-12 Toro

dal 15-9 al 31-12 Sagittario 1967 dall’1-1 al 19-8 Toro1937 dall’1-1 al 31-12 Sagittario dal 20-8 al 31-12 Ariete1938 dall’1-1 al 3-3 Sagittario 1968 dall’1-1 al 31-12 Ariete

dal 4-3 al 31-12 Scorpione 1969 dall’1-1 al 19-4 Ariete1939 dall’1-1 al 12-9 Scorpione dal 20-4 al 31-12 Pesci

dal 13-9 al 31-12 Bilancia 1970 dall’1-1 al 2-11 Pesci1940 dall’1-1 al 31-12 Bilancia dal 3-11 al 31-12 Acquario 1941 dall’1-1 al 24-5 Bilancia 1971 dall’1-1 al 31-12 Acquario

dal 25-5 al 31-12 Vergine 1972 dall’1-1 al 27-4 Acquario1942 dall’1-1 al 21-11 Vergine dal 28-4 al 31-12 Capricorno

dal 22-11 al 31-12 Leone 1973 dall’1-1 al 27-10 Capricorno1943 dall’1-1 al 31-12 Leone dal 28- 10 al 31-12 Sagittario1944 dall’1-1 all’11-5 Leone 1974 dall’1-1 al 31-12 Sagittario

dal 12 - 5 al 31-12 Cancro 1975 dall’1-1 al 10-7 Sagittario1945 dall’1-1 al 3-12 Cancro dall’11-7 al 31-2 Scorpione

dal 4-12 all’11-12 Gemelli 1976 dall’1-1 al 31-12 ScorpioneIl 13 e 14 Cancro 1977 dall’1-1 al 7-1 Scorpionedal 15-12 al 31 - 12 Gemelli dall’8-1 al 31-12 Bilancia

1946 dall’1-1 al 4 Cancro 1978 dall’1-1 al 5-7 Bilanciadal 5-1 al 31-12 Gemelli dal 6-7 al 31-12 Vergine

1947 dall’1-1 al 2-8 Gemelli 1979 dall’1-1 al 31-12 Vergine1948 dal 3-8 al 31-12 Toro 1980 dall’1-1 al 12 -1 Vergine1949 dall’1-1 al 26-1 Toro dal 13-1 al 31-12 Leone

dal 27-1 al 31-12 Ariete 1981 dall’1-1 al 24-9 Leone1950 dall’1-1 al 26-7 Ariete dal 25-9 al 31-12 Cancro

dal 27-7 al 31-12 Pesci 1982 dall’1-1 al 31-12 Cancro1951 dall’1-1 al 31-12 Pesci 1983 dall’1-1 al 16-3 Cancro1952 dall’1-1 al 28-3 Pesci dal 17-3 al 31-12 Gemelli

dal 29-3 al 31-12 Acquario 1984 dall’1-1 all’11-9 Gemelli1953 dall’1-1 al 9-10 Acquario dal 12-9 al 31-12 Toro

dal 10-10 al 31-12 Capricorno 1985 dall’1-1 al 31-12 Toro1954 dall’1-1 al 31-12 Capricorno 1986 dall’1-1 al 6-4 Toro1955 dall’1-1 al 2-4 Capricorno dal 7-4 al 31-12 Ariete

dal 3-4 al 31-12 Sagittario 1987 dall’1-1 al 2-12 Ariete1956 dall’1-1 al 4 -10 SAgittario dal 3-12 al 31-12 Pesci

dal 5-10 al 31-12 Scorpione 1988 dall’1-1 al 31-12 Pesci1957 dall’1-1 al 31-12 Scorpione 1989 dall’1-1 al 22-5 Pesci1958 dall’1-1 al 16-6 Scorpione 1989 dal 23-5 al 31-12 Acquario

dal 17-6 al 31-12 Bilancia 1990 dall’1-1 al 18-11 Acquario1959 dall’1-1 al 15-12 Bilancia dal 19-11 al 31-12 Capricorno

dal 16-12 al 31-12 Vergine 1991 dall’1-1 al 31-12 Capricorno

5

1992 dall’1-1 all’1-8 Capricorno 2004 dall’1-1 al 26-12 Torodal 2-8 al 31-12 Sagittario dal 27-12 al 31-12 Ariete

1993 dall’1-1 al 31-12 Sagittario 2005 dall’1-1 al 31-12 Ariete1994 dall’1-1 all1-2 Sagittario 2006 dall’1-1 al 22-6 Ariete

dal 2-2 al 31-12 Scorpione dal 23-6 al 31-12 Pesci1995 dall’1-1 al 31-7 Scorpione 2007 dall’1-1 al 14-12 Pesci

dall’1-8 al 31-12 Bilancia Il 15 e il 16 dic. Acquario 1996 dall’1-1 al 31-12 Bilancia Il 17 dicembre Pesci1997 dall’1-1 al 25-1 Bilancia dal 18-12 al 31-12 Acquario

dal 26-1 al 31-12 Vergine 2008 dall’1-1 al 31-12 Acquario1998 dall’1-1 al 20-10 Vergine 2009 dall’1 -1 al 21-8 Acquario

dal 21-10 al 31-12 Leone 2009 dal 22- 8al 31-12 Capricorno1999 dall’1-1 al 31-12 Leone 2010 tutto Capricorno2000 dall’1-1 al 9-4 Leone 2011 dall’1-1 al 3-3 Capricorno

dal 10-4 al 31-12 Cancro 2011 dal 4-3 al 31-12 Sagittario2001 dall’1-1 al 13-10 Cancro 2012 dall’1-1 al 30-8 Sagittario

dal 14-10 al 31-12 Gemelli 2012 dal 31-8 al 31-12 Scorpione2002 dall’1-1 al 31-12 Gemelli2003 dall’1-1 al 14 -4 Gemelli

dal 15 -4 al 31-12 Toro

I Nodi nei segni.

Nodo Nord in Ariete – Nodo Sud in Bilancia.Nelle vite passate quest’Anima ha sempre cercato di compiacere gli altri e quindi , non esisteva come individuo. Godeva del sostegno del gruppo, in quanto spesso si tratta di persone che hanno vissuto in comunità, o grandi famiglie patriarcali in cui tutto era deciso da altri , e quindi poteva evitare di prendere decisioni per se. Pertanto, la sua crescita individuale era piuttosto scarsa. Ecco dunque l’indecisione, la mancanza di carattere, la fatica nel prendersi la responsabilità di se stessi. Poteva trattarsi di un artista, o comunque di una persona molto sensibile ed emozionale. Il programma da perseguire per questa vita è ovviamente quello di scoprire la propria identità, di cominciare a prendere le decisioni da soli, di camminare con le proprie gambe. Se il programma riesce, ecco che abbiamo parecchie persone celebri con il nodo nord in Ariete, cioè persone che sono riuscite a riscoprire se stesse e le proprie potenzialità, a liberarsi dei condizionamenti familiari molto forti .Nodo Nord in Toro – Nodo sud in Scorpione.L’Anima ha scelto un karma molto difficile, in quanto il Nodo sud in Scorpione ci parla di vite passate all’insegna di magia nera, abusi, di morte seminata , rifiuti di ogni genere. Il Nodo Nord in Toro ci parla di umanità e in particolare di natura; pertanto sarebbe auspicabile un impegno proprio a favore della natura, degli oceani, degli animali, ecc. Il punto debole di queste persone sono le passioni, furibonde, che li possono cogliere per cercare di portarseli via. Quindi, bisogna abbandonare tutti gli istinti distruttivi e autodistruttivi, per cominciare a costruire nella direzione del Toro,

continua nel prossimo numero

1717

I Templari hanno posseduto navi proprie, sin dalla fine del 1200. Le necessità logi-stiche prima, e commerciali poi, costrinsero i Templari a estendere una loro rete ma-rittima di contatti dall’Europa fino in Terrasanta. Di conse-guenza, ben presto, il domi-nio del Tempio non si estese più solo sulla terraferma, ma anche sul mare. All’origina-ria necessità di trasportare in Terrasanta pellegrini, ca-valieri, cavalli e materiali di prima necessità quali armi, denaro, legname e materie prime come ferro, rame, ar-gento, piombo, essi rispose-ro creando una propria flotta. Bisogna inoltre considerare che le navi protette dai Ca-valieri diventavano un mezzo sicuro per i pellegrini.Sono arrivati sino a noi do-cumenti storici che attesta-no, fin dagli inizi, la proprietà di navi da parte dell’Ordine che, in poco tempo, divenne anche proprietario di porti e di cantieri navali. Del re-sto un articolo della Regola dell’Ordine precisa addirit-

tura: ”Tutte le navi marittime che sono a San Giovanni d’Acri, sono poste all’Ordi-ne del Commendatore della città di Gerusalemme“. Vi cito alcuni esempi: nel 1234 vi è un decreto che libera le navi templari, provenienti da Outremer, dall’obbligo di di-chiarare ai doganieri il carico di archi e balestre, traspor-tati sulle loro navi. Nel 1248 in alcuni contratti navali mar-sigliesi, viene citata la nave templare la “Buona Ventura“: nel 1288 compare la “Rosa

del Tempio“ e successiva-mente viene registrato l’affit-to della nave : “Benedetta“ al prezzo di 2600 libbre di Tolo-ne. Nel 1278, Carlo D’Angiò, si servì di navi Templari per il trasporto di 35 cavalli da guerra.La nave Templare più famo-sa fu, il “Falco del Tem-pio“, grossa e panciuta nave ammiraglia costruita dai genovesi e comandata dal leggendario capitano, frate Ruggero da Flor.Nel 1291, il Falco del Tempio,

fu l’ultima nave a lasciare il porto della città di Acri, alla fine conquistata da Musul-mani, divenendo così testi-mone storica dell’atto con-clusivo della presenza cro-ciata in Terrasanta, (ricordare il glorioso sacrificio di tutti gli Ordini cavallereschi che uni-ti, purtroppo tardivamente, si immolarono al completo, Templari, Ospitalieri, Teu-tonici e S. Lazzaro per per-mettere ai civili di salvarsi). Ricordiamo che la bandiera delle navi Templari era un teschio con due tibie in-crociate, e Ruggero da Flor divenne in seguito famoso capitano di ventura nelle guerre che infiammarono il Mediterraneo, nella rivalità delle città marinare. A causa della crescente necessità di trasportare cavalli, i Templari crearono un tipo di nave par-ticolare che permetteva di far salire direttamente i cavalli a bordo, con l’uso di passerel-le, senza doverli imbragare e sollevare con argani. Tali navi vennero dette “ Uscieri “ per via del grande portellone che si apriva sulla fiancata, per alcuni autori si trattò di un’in-venzione dei Bizantini, che i Templari si limitarono a per-fezionare. Ancora una volta l’Ordine si poneva su un gra-dino più alto rispetto ai vari monarchi europei, i re all’e-poca non disponevano di una vera flotta, ma dovevano affittare le navi. Dalle crona-che del tempo sappiamo che Templari e Ospitalieri, diede-ro luogo a furiose battaglie sul mare, contro i Musulma-ni, per il dominio delle rotte del Mediterraneo.Il porto di Marsiglia fu agli inizi il più importante per l’ordine, poi si sviluppò Motpellier e quelli in Puglia e Sicilia, non-ché vari porti sull’Adriatico. Il Tempio disponeva di una

Angelo Casati

La Flotta Templare

1818

rada propria a Saint Rapha-el, sulla costa provenzale e di un’altra a Colliure su quel-la Catalana. Aveva inoltre una grossa base a Maiorca e in Portogallo. In Provenza i prodotti raccolti nelle oltre 9000 case e commende ve-nivano movimentati tramite i porti di Biot, Nizza e Tolone, dove il Tempio disponeva di un accesso privato indipen-dente. I normali rapporti con i possedimenti del Tempio in Inghilterra e Scozia erano as-sicurati dai porti della costa

fiamminga come Barfleur e da San Valery-en-Caux, con le sue Commende di Blos-seville e di Drosay, dai porti della Somme e da quelli della costa settentrionale. Fu una nave Templare a trasportare i fondi di Enrico III° in Fran-cia e sempre navi templari, trasportarono per conto del papato, i proventi della “Ven-tesima“, la Tassa per le Cro-ciate, dall’Europa in Orien-te. In Terrasanta il porto più importante fu quello di Acri, dove vi era un vero e proprio

quartiere del Tempio, ma an-che i porti di Cesarea, Tiro, Sidone, Jebail, Tortosa, no-ché il controllo totale di Port Bonnel a nord di Antiochia.Fu proprio la particolare im-portanza, attribuita dai Tem-plari a un porto decentrato come quello di La Rochelle sull’Atlantico e al fatto che, nel 1307 da quel porto scom-parve l’ultima flotta Templa-re, ad alimentare la leggen-da sulle miniere d’argento che i Templari avrebbero possedute nelle Americhe e sulle basi segrete nel nuovo Mondo, che avrebbero loro offerto rifugio dopo la cadu-ta dell’Ordine. In realtà La Rochelle è un altro dei tanti misteri irrisolti del Tempio. Di solito le basi templari ave-vano un solo scopo: facilitare le comunicazioni con i porti del Mediterraneo e la Terra-santa. La Rochelle sull’oce-ano atlantico era una delle più importanti commende dell’Ordine e il suo porto ospitava una grande flotta. E’ evidente però che il porto non si trovava sulla rotta del Medio Oriente.Si può sostenere che questa flotta molto costosa e forma-ta da molte navi mercantili ma anche da guerra (50 e 30),

gestita da marinai che appar-tenevano de iure al Tempio, assicurasse i collegamenti tra Francia, Inghilterra, Por-togallo e la Bretagna, la qua-le non faceva parte del regno di Francia come del resto la stessa Rochelle, che nel XII sec. era sotto il controllo inglese. Ma la Flotta aveva forse altri scopi? E che cosa ne fu dopo lo scioglimen-to dell’Ordine? Il tesoro dei Templari fu messo in salvo da questa flotta? Non si sa assolutamente nulla. Un’im-magine concreta dell’Impor-tanza dell’Ordine di Cristo, come si denominò in Por-togallo l’Ordine del Tempio dopo il 1307, è nelle gesta delle grandi scoperte maritti-me che si susseguirono dopo tale data. Basta sottolineare un fatto, la Croce patente Rossa, l’insegna dell’Ordi- ne, campeggiava sulle vele dei primi grandi navigatori, come Diego Cao che piantò la bandiera su tutte le coste africane. Sarà stato un caso che an-che le caravelle di Cristoforo Colombo, le prime navi giun-te ufficialmente in America, si fregiavano sulle loro vele dell’insegna Templare, La Croce Rossa Patente.

1919

La riscoperta da parte dell’occidente delle discipli-ne psicofisiche orientali ha rilanciato anche l’Esicasmo, che è una meditazione dina-mica e ritmica per eccellenza perché recitata seguendo il respiro. La pratica giappone-se dell’Hara ci aiuta a cono-scerlo

L’Esicasmo è la “preghiera respirata” dei monaci orto-dossi divulgata nel secolo passato dai Racconti di un pellegrino russo di autore anonimo. Questi racconti sono il libro più conosciuto e diffuso della spiritualità russa. L’immediatezza del linguag-gio parlato, la ricchezza delle scene, l’ingenuità fresca del racconto, la vivacità popolare e la sincerità di una esperien-za di vita mistica ne fanno un libro pervaso di gioia e unico al mondo. Carlo Carretto lo portava sempre con sé nei suoi lunghi soggiorni nel de-serto algerino come Piccolo Fratello dì Gesù.L’Esicasmo viene conside-rato anche lo Zen dell’Occi-dente e merita certamente una chiara esposizione che aiuti ad apprezzarlo anche da parte di chi ricerca tecni-che più lontane dalla nostra eredità culturale e spirituale. Ma in questo articolo ci serve solo come spunto di partenza per parlare di un’altra “medi-tazione respirata” che viene dall’Oriente, però elaborata da un occidentale. Parliamo del “respiro nell’Hara” inse-gnato fino a tarda età da Karl Graf Durckheim nella sua Scuola di terapia iniziatica e che ha tante analogie con l’E-sicasmo.Vogliamo provare a esporre questa tecnica dell’Hara per farla poi dissolvere nell’Esi-casmo sul finale. È una eser-citazione molto stimolante

per chi voglia crearsi un ri-tuale quotidiano e continuo; addirittura incessante, per-ché può prolungarsi anche nel sonno. Sentiamo, allora, cosa intende Durckheim per Hara riassumendo il suo pen-siero direttamente dal libro omonimo edito tanti anni fa dalle Mediterranee e sempre ristampato come un classico.

HARA, IL CENTRO VITALE DELL’UOMO Hara, in giapponese vuol dire “ventre”, ma in senso psi-cofisico indica il baricentro dell’individuo alla base del tronco e, in senso più am-pio, la disposizione generale dell’uomo che si è reso libero dal condizionamento del pic-colo Io. Ogni volta che siamo tesi verso uno scopo cadia-mo facilmente fuori da que-sto centro, perché l’azione parte dal nostro Io, così pau-roso di fronte alla sofferenza e così bisognoso di sicurez-ze. Quando l’uomo giunge a stabilirsi nell’hara sente che questo suo spazio è legato alle potenze della creazione; a forza di trasformazione e rigenerazione che cambia-no il suo modo di concepire il mondo e lo mantengono calmo nelle tempeste della vita. Così, nei momenti critici, l’hara ci mette a disposizione tutto ciò che abbiamo e sap-piamo, tutto ciò di cui siamo capaci. Chi dispone dell’hara resta sempre in piedi acqui-stando una stabilità sorpren-dente, sia fisicamente che moralmente, anche quando riceve un urto o un rovescio. E chi padroneggia l’hara si stanca meno, perché ripor-tandosi nel mezzo può sem-pre attingervi le energie che lo rinnovano. Ogni volta che qualsiasi lavoro viene fatto con hara, cioè con la forza del centro e con un io rila-

sciato, lo sforzo necessario si riduce a un minimo perché il movimento avviene in modo organico.E nella malattia le forze gua-ritrici della natura non vengo-no contrastate dall’angoscia dell’Io. La guarigione non è più ostacolata da intime ten-sioni e contrazioni di chi è preoccupato per il male e le sue conseguenze, ma favori-ta invece dalle forze più pro-fonde aperte dall’hara. Quan-do si è inserito il “centro”, tutti gli organi vi partecipano come funzioni di un tutto uni-tario. E l’hara dà all’uomo la capacità di sopportare il do-lore. Per chi sposta nell’hara la propria coscienza è come se l’Io che soffre fisicamente non esistesse. Imparando a lasciar cadere l’Io timoroso di tutto e concentrandosi nella parte mediana del cor-po, il dolore non si avverte quasi più. Mentre la saldezza nell’hara immunizza dalle in-tossicazioni.Inoltre l’hara ristabilisce l’u-nità dell’uomo con se stes-so, non più in contrasto con il bisogno di sfogare i suoi impulsi; in questo spazio nuovo, le tensioni interne ac-cumulate si risolvono da sole trasformandosi in energia po-sitiva senza doversi scaricare all’esterno. Per chi possiede l’hara è come se una porta in-teriore si fosse aperta e così le reazioni alle provocazioni o le pulsioni istintuali che si vogliono evitare non vengono represse ma sciolte e subli-mate in creatività.Da secoli, in Oriente, l’hara è un punto fermo nella cura della salute generale e nella terapia iniziatica. Calandosi qui, la persona si lascia per-meare dal suo Essere inte-riore.L’intera regione del bacino è il “mare dell’energia vitale” e

al suo interno c’è il centro es-senziale della vita. Qui si atti-va la forza terrena che è insita nella persona: questo centro è il tanden, tre dita sotto l’om-belico e tre dita all’interno dell’addome. L’energia che vi viene attivata è il ki dello zen o il prana dello yoga.Con il respiro si rafforza l’ha-ra. A ogni inspirazione viene fornita nuova energia vitale la quale riattiva l’energia già presente nell’addome; da qui si distribuisce attraverso i vari meridiani in tutto il corpo fisico e in quello psichico. Lo scopo degli esercizi hara è di imparare a lasciar scorrere liberamente questi flussi di energia, senza ostacolarli con l’Io cosciente. Ciò è possibile se la persona è bene anco-rata all’addome. Altrimenti le energie vitali vengono devia-te e trattenute a livello delle spalle. E questo blocco im-pedisce anche alle energie spirituali, che restano confi-nate nel capo, di scendere in tutta la persona. Quando ci si contrae a livello delle spalle vengono a mancare le ener-gie nella regione vitale e con-temporaneamente si ostaco-la la libera circolazione delle energie dell’Essere.

IL RITUALE DELL’HARAPerciò l’esercizio fonda-mentale dell’hara consiste nel rilassare le spalle all’i-nizio di ogni espirazione e nell’insediarsi nell’addome alla fine dell’espiro, sostan-do qui piacevolmente, in modo da lasciarsi rigenerare con il rinnovarsi dell’inspiro.In questo modo si allentano anche le tensioni più pro-fonde e si trova dentro di sé, insieme alla propria forza, la fiducia in un sostegno supe-riore. Occorre però una pra-tica perseverante per riuscire a stabilizzare durevolmente

Rodolfo Signifredi

Quando il respiro diventa una incessante meditazione e preghiera

Esicasmo, lo Zen dell’Occidente

2020

la traslazione in basso del centro di gravità. La pratica nei dettagli è così: 1) schiena eretta senza tensione 2) la-sciar scendere le spalle libe-ramente 3) rilasciare il plesso solare e il ventre 4) immette-re una certa forza nel basso ventre sentendosi “laggiù, un po’ sotto l’ombelico” 5) ascoltare il respiro scende-re nell’hara e risalire verso il cervello. Tutto ciò che è so-pra l’ombelico deve restare disteso; solo nella parte infe-riore del ventre c’è una lieve tensione. Così, fin dal principio, l’e-sercizio con l’hara consiste nel lasciarsi andare verso il basso. È un movimento da ripetere sistematicamente. Si avvertirà una forza che sorge dal mezzo, sale lungo il dorso e libera lo spazio superiore dando una sensazione di eu-foria.È fondamentale, a questo scopo, allenarsi a percepi-re la “corporeità interiore”; a occhi chiusi “sentirsi dentro”, sotto la pelle e sciogliere tut-te le tensioni, ascoltando il re-spiro che va e viene sponta-neamente da questo centro.Seduti o in piedi, con il bu-sto bene eretto, osservare il processo della respirazione, interiorizzandosi nell’addome e sentire il respiro che viene e va. Con l’espiro “scivolare” all’interno, ma senza insac-carsi, continuando a man-tenere la posizione eretta. L’espirazione si farà sponta-neamente più lenta dell’inspi-razione, e con il tempo potrà diventare tre volte più lunga. All’inizio di ogni espirazione rilassare consapevolmente le spalle, ma senza spingerle in basso; un allentamento psi-cologico che parte dall’Io. Al termine dell’espirazione so-stare fiduciosi nella regione del bacino. Così si può pren-dere coscienza delle energie vitali che ora affluiscono li-beramente nell’addome, cioè nel loro centro, dopo essere state sbloccate dalle spalle. A ogni atto respiratorio ri-petere il rilassamento delle spalle e la sosta nel bacino. L’Io in alto non ha più nulla da trattenere e viene a sua volta attirato nel bacino. Durante

la pausa o l’apnea restare fiduciosi nelle fondamenta dell’addome. Lasciare che la parte inferiore dell’addo-me sporga in fuori, mentre la zona superiore si sposta in dentro e verso il basso.Poi visualizzare all’interno dell’hara il centro dell’ener-gia, il tanden, che si espande con l’inspirazione e che du-rante l’espirazione distribu-isce la sua energia, il ki , in tutto il corpo. A questo punto è fondamentale il modo giu-sto di lasciar tendere il basso ventre. Nella respirazione na-turale, l’addome si gonfia con l’inspiro e si contrae durante l’espiro. Ma quando l’espira-zione è completa e accentua-ta il basso ventre sporge un poco; lo sanno bene i cantan-ti. Anche la regione lombare si dilata durante questa ac-centuazione e pausa dell’e-spiro. Quindi, basso ventre in leggera tensione e stomaco rilasciato. Ogni inspirazione procura nuove energie, rinnova ogni singola cellula. E così l’intero processo del respiro diventa una continua trasformazione.Per restare ancorati alla base e non volare di nuovo verso l’alto, considerare il vissuto quotidiano come un eserci-zio interessante che consen-te di imparare e fare sempre nuove esperienze. Arrivare a percepire veramente le fon-damenta dentro di noi con espirazioni ancora più lun-ghe, evitando però di afflo-sciarsi. Insediarsi nel bacino senza timori inconsci verso le forze racchiuse nella regione pelvica. Affidarsi a esse fidu-ciosamente.

IL RESPIRO HARA CON LE

FORMULELa ritualità dell’hara, man mano che si approfondisce, trae vantaggio dalla formula-zione di atteggiamenti men-tali che sottolineano le varie fasi. Ci sono quattro tempi nel respiro naturale effettua-to in situazioni di calma, due per l’espiro, uno per la pausa e uno per l’inspiro. Per eser-citarci in questa respirazione possiamo cominciare dicen-do mentalmente la formula più semplice: “Espiro - Espiro - Pausa - Inspiro” in sincronia con le singole fasi.La quiete, la distensione e il raccoglimento che derivano dalla giusta posizione del cor-po e dalla giusta respirazione risultano ancor più profondi se accompagnano i quattro tempi del respiro con quat-tro intenzioni che facilitano il distacco, la distensione, lo spostamento del baricentro interiore dall’alto verso il bas-so. Nei due tempi dell’espiro diciamo “abbandonare - di-scendere”; durante la pausa “unirsi”; durante l’inspiro, che non si compie a comando ma spontaneamente, “risalire”.L’esercizio base, nel suo complesso, consiste pro-prio nel sottolineare anche psicologicamente la disce-sa in basso del baricentro, la stabilizzazione nell’hara e la liberazione delle energie bloccate.“Abbandonare” significa al-lontanare tutte le preoccu-pazioni, le tensioni, le paure, le maschere, i desideri di af-fermare se stessi... “Discen-dere” vuol dire affidarsi, ap-poggiarsi alle forze benefiche del nostro profondo. “Unirsi” è collegarsi alla propria es-senza, al Sè, all’archetipo,

all’autentico che è in noi. È il completo abbandono dell’Io che si libera delle sue vecchie forme. Mentre il “Risalire” corrisponde al ritrovarsi rin-novati, trasformati dall’incon-tro sia pur fugace dell’Io con il Sè e, attraverso questo, del proprio “essere” con l’Essere trascendente.Questo movimento è il ciclo della ruota della trasforma-zione che si compie in ogni vera meditazione. E questo movimento lo si ritrova an-che nell’Esicasmo dal quale eravamo partiti. Le sue sem-plicissime tecniche portano la mente a concentrarsi sul cuore o sull’hara, mentre il respiro si muove dall’ester-no all’interno e dall’interno all’esterno trasportando con sé una formula giaculatoria come il kirye eleyson che tradotta suona così: “Signor mio Gesù Cristo, abbi pietà di me”.Dall’efficacia di questo an-tico rituale ortodosso, che l’esperienza diretta e i rac-conti dei monaci greci e russi comprovano, e dalle risonanze psicofisiche del rito orientale dell’hara, ripro-poste da un mistico come Durckheim che ne ha fatto il fulcro della propria realiz-zazione, viene spontaneo l’incontro tra queste due pratiche in una sintesi ideale per il nostro tempo. C’è chi lo ha fatto con notevoli be-nefici per l’anima e il corpo. In tempi di aridità spirituale come il nostro è sorpren-dente sentire che la preghie-ra non è spenta e che è lo stesso nostro organismo a richiederla per il proprio be-nessere. Quando il respiro diventa preghiera.

2121

Umberto Accomanno

La chiusura del mondo sudi-sta americano rispetto all’e-voluzione borghese del resto della civiltà occidentale è la chiave per comprendere la natura del mondo confede-rato(1). La schiavitù dette al Sud uno specifico modo di vita perché formò la base di un ordine sociale in cui il la-voro schiavistico dominò, e praticamente escluse, ogni altro tipo. Su tale base si fon-dò l’autorità di una potente e notevole classe sociale che, pur costituendo soltanto una minima parte della po-polazione bianca, riuscì con rimarchevole successo a edificare un tipo particolare di civiltà che fu la ripresa di una società sostanzialmente arcaica. È fuori discussione che il carattere agrario della civiltà sudista influì enorme-mente sulla sua cultura, i suoi valori sociali, l’intera vita della sua comunità: ma quel-lo che sembra per lo più dif-ficile da intendere è che esso fu vincolato al suo carattere agrario (arretrato) pratica-mente senza possibilità di progresso o di trasformazio-ne proprio dal sorgere e dal-lo svilupparsi della schiavitù. Nel 1619 un negriero olande-se sbarcò a Jamestown ven-ti schiavi africani. Sebbene i neri inizialmente fossero, come i bianchi, schiavi vin-colati a contratto, in meno di mezzo secolo la loro con-dizione sarebbe diventata di schiavi tout court. Dal momento stesso in cui la peculiare istituzione fornì la base su cui sorse l’intero edificio della società e della civiltà sudista, il conflitto tra questa e la sezione borghe-se e capitalistica del Nord America divenne inevitabi-le. La condizione del Sud in rapporto al resto del mondo occidentale era ben altro

che una semplice differen-za di attività economiche. La schiavitù era la base su cui sorgeva un’intera cultu-ra e un’intera civiltà e quindi non era riformabile se non a prezzo di provocare il crollo di tutto l’enorme edificio che essa sorreggeva. E di fronte a una tale prospettiva, qua-lunque classe dominante avrebbe indietreggiato. Tut-tavia il contrasto sarebbe maturato progressivamen-te. La secessione del South Carolina sarebbe arrivata solo nel dicembre del 1860, mentre la capitolazione di Fort Sumter a opera delle truppe confederate avvenne solo nell’aprile del 1861. Per un periodo piuttosto lungo la società schiavistica del Sud riuscì a convivere con quella capitalistica del Nord. Infatti, quando gli inglesi offesero gli interessi e l’amor proprio delle tredici colonie, il Nord e il Sud combatterono insie-me per l’indipendenza. Il Sud schiavista, da parte sua, for-nì alla causa indipendentista sia i capi militari, a comin-ciare da George Washington (membro dell’élite meridio-nale e grande proprietario di schiavi), sia pensatori, ideologi ed esponenti poli-tici (Patrick Henry, Thomas

Jefferson, James Madison e altri ancora). Era tipico infatti di una società aristocratica come quella che dominava la società del Sud disprez-zare le attività mercantili e considerare loro prerogati-va e vocazione il governo e la difesa dello Stato. Tutte le classi aristocratiche ave-vano sempre considerato la politica e la guerra come un loro diritto-dovere, simili an-che in questo ai senatori ro-mani della tarda Repubblica. Non è un caso che dei primi cinque presidenti degli Stati Uniti ben quattro siano stati grandi piantatori sudisti. Il rapporto con gli schiavi, au-toritario e paternalistico, ave-va contribuito ad addestrare gli aristocratici del Sud al co-mando, sviluppando la loro capacità di saper ottenere sia il rispetto sia l’ammira-zione dei loro sottoposti. La vita agricola, la pratica della caccia e il coesistere con la natura avevano educato sia l’élite dei piantatori che tutta la popolazione bianca del Sud, fossero piccoli pro-prietari terrieri che yeomen (contadini liberi che ai signo-ri si ispiravano) a saper ca-valcare, sparare, affrontare le intemperie e l’inclemenza della natura.

Inoltre , l’orgoglio aristocrati-co li portava a una naturale fierezza e combattività. Nel Sud c’erano persone di deli-cata immaginazione, di istinti urbani e di metodi aristocra-tici, gente superiore: in breve gentiluomini. Era una civiltà con molti aspetti eccellenti, forse la migliore che l’emi-sfero occidentale avesse mai conosciuto, senza dubbio la migliore che questi stati ab-biano mai veduto (scriveva un commentatore dell’epo-ca). Tuttavia, il contrasto con la borghesia del Nord non aveva tardato a manifestarsi subito dopo l’indipendenza delle tredici colonie britanni-che. Il ministro delle finanze della nuova Unione, Alexan-der Hamilton di New York, che tra i leader della rivolu-zione rappresentava i ceti borghesi e capitalistici del Settentrione, vedeva il futuro degli Stati Uniti in un grande organismo economicamente centralizzato, che si doveva fondare su un mercato uni-co nazionale, trasformando gli Stati dell’Unione in mere province.Questa politica non poteva non urtare violentemente con l’autonomia e l’indivi-dualismo dei piantatori del Sud. Il primo passo com-piuto da Hamilton fu quel-lo di federalizzare il debito pubblico degli Stati che si sarebbero così trovati del tutto privi di ogni autorità in campo economico, nonché costretti ad accettare che i creditori dell’Unione (in misura schiacciante grandi finanzieri del Nord) venis-sero ripagati dal governo centrale, il quale si sarebbe procurato i fondi necessa-ri mediante la tassazione di beni reali certi (le piantagio-ni degli aristocratici sudisti). Inoltre, Hamilton desiderava

Stati Uniti:capitalisti del Nord, gentiluomini e schiavisti del Sud

2222

che l’intera gestione finan-ziaria dell’Unione fosse po-sta sotto la tutela di una ban-ca centrale simile alla Banca d’Inghilterra. I piantatori in-vece difendevano tutta una serie di istituti bancari locali che esercitavano il piccolo credito agrario a basso tasso di interesse. Chi contrastò Hamilton fu il futuro presidente degli Sta-ti Uniti, Thomas Jefferson, grande piantatore virginia-no (possedeva 200 schia-vi), uomo di grande cultura e illuminista, ammiratore di Rousseau. Jefferson, pur ritenendo la schiavitù una piaga, pensava che non si potesse cancellare con un tratto di penna. Jefferson, fondatore del Partito Demo-

cratico, realizzò un compro-messo basato sull’alleanza tra l’élite agraria del Sud e le classi popolari del Nord, una politica che avrebbe garan-tito un cinquantennio di sta-bilità e rimandato lo scontro bellico che avrebbe causato centinaia di migliaia di morti. Tuttavia, il sistema sudista schiavistico rappresentava un’economia della stagna-zione. I proprietari, special-mente i maggiori, tendevano sempre più a considerarla una sorta di mondo a par-te, un luogo dove produrre ricchezza non in sé o per reinvestirla, come nel Nord America , ma per incremen-tare il lusso, i piaceri della vita. I sudisti, meno vincolati dal profitto, meno stimolati

dal pungolo di una spietata concorrenza, più portati ad apprezzare il denaro come strumento per un’esistenza più piacevole, erano consi-derati, da osservatori come Tocqueville, più franchi, più affascinanti rispetto ai loro confratelli del Nord borghese e capitalista, sovente domi-nato dalla grettezza, dall’a-varizia e dallo sfruttamento spietato dei ceti umili. Le differenze tra le due se-zioni degli Stati Uniti sono ben rappresentate dalle di-verse risposte che sudisti e nordisti danno al visitatore dei loro rispettivi territori. I nordisti: “Perdoni signore, che cosa viene a fare qui?”; i sudisti: “Si segga, forestiero, che cosa posso offrirle?”. Si tratta di un semplice aned-doto, ma la dice lunga circa i diversi atteggiamenti. Nono-stante il fascino aristocratico, il Sud si trovò, in poco tem-po, in difficoltà. Alla vigilia della guerra di secessione al Nord oltre il 60% della popo-lazione era assorbito nell’in-dustria, mentre nel Sud tale percentuale era ferma a un misero 16%, inoltre, le indu-strie meridionali rimanevano di modestissime dimensio-ni. Alcune statistiche hanno sottolineato che il Sud, alla metà dell’Ottocento, posse-deva 159 officine. Fabbriche di modestissime dimensioni,

sovente poco più che arti-giane; l’intero capitale inve-stito ammontava a poco più di 9 milioni di dollari, mentre nella sola Nuova Inghilterra si contavano 570 fabbriche con un capitale di oltre 69 milioni di dollari. Senza con-tare la gigantesca attrezza-tura industriale di New York, di Pittsburgh, detta la città dell’acciaio , o di Chicago, la cui stazione ferroviaria ave-va una movimentazione di ben 74 treni al giorno già nel 1859. Secondo le statistiche del 1860, l’intera attrezzatura del Nord industriale consi-steva in 140.000 fabbriche con 1.311.000 operai e un capitale investito superiore al miliardo di dollari. Si cal-cola altresì una produzione annua pari a 1886 miliardi di dollari. Queste le premesse(2) che portarono alla Guerra di Secessione : dall’elezione di Lincoln nel 1860, alla seces-sione del South Carolina fino alla capitolazione delle trup-pe confederate nel 1865.

Note: 1) RAIMONDO LURAGHI, La spada e le magnolie.Il Sud nella storia degli Stati Uniti, Roma 2007 ;2) REID MITCHELL, La guerra civile americana, Bologna 2003

2323

La sera del 3 luglio 1908, du-rante una campagna di scavi della Missione Archeologica Italiana diretta dal prof. Lui-gi Pernier*, veniva rinvenuto il cosiddetto “disco di Fe-sto” nel palazzo reale mi-noico della località da cui il documento trae il nome, e precisamente in uno strato archeologico non posteriore alla fine del periodo medio minoico, cioè al secolo di-ciottesimo a. C.Si tratta di un disco di forma geometrica imperfetta, ot-tenuto a mano mediante la compressione su un piano di una palla di creta ancor fre-sca e di colore grigio-giallo-gnolo-rossiccio. Nonostante l’incendio del palazzo che lo ha in parte annerito, esso è in uno stato di quasi perfet-ta conservazione e presenta solo lievi screpolature.In questo singolare cimelio si può vedere la più antica testimonianza finora perve-nutaci di un procedimento analogo a quello della stam-pa dato che esso reca un enigmatico testo impresso a lettere mobili. Infatti su ambedue le facce, a mezzo di una punta dura, sono state graffite delle linee e poi, a mezzo di punzoni, impressi dei segni puramen-te pittografici che ammon-tano complessivamente a duecentoquarantuno, tutti leggibilissimi tranne uno solo scomparso del tutto in seguito a scrostatura; i tipi assommano invece a quarantacinque e, in linea di massima, rappresentano oggetti, persone, piante, ani-mali, costruzioni ecc. perfet-tamente riconoscibili.Le ipotesi più disparate sono state emesse circa il signifi-cato di tale iscrizione senza però diradarne il mistero e una simile, anzi maggiore in-

cer-tezza r e g n a nella de-terminazio-ne della zona di origine del do-cumento.Mentre infatti il Pernier lo riteneva prodotto nel luo-go stesso ove fu rinvenuto, quasi tutti gli studiosi si ri-volgevano verso altre zone del bacino mediterraneo, e in particolare verso l’Asia Minore, senza tuttavia ad-durre prove conclusive al ri-guardo. Anche se l’ipotesi di E. Meyer, che lo attribuisce ai Filistei, va scartata per ra-gioni di carattere cronologi-co, anche se non maggiore consistenza hanno la tesi del MacAlister, che lo ritiene im-portato dalla costa africana, e quella di sir A. J. Evans, che lo attribuisce alla costa sud occidentale microasiati-ca, non crediamo per questo che si debba consentire nel giudizio espresso negli anni

trenta dal Diringer che “se dobbiamo proprio deciderci per una opinione, preferire-mo – sino a prova contraria ma concreta – considerare il disco di Festo come opera del luogo dove è stato ritro-vato”; a noi sembra che la delicata questione non pos-sa ancora venire risolta con certezza, ma dobbiamo tut-tavia ricordare che nell’isola di Creta è stata messa alla luce un’ascia con segni affini a quelli del disco, sebbene di fattura meno accurata, più corsiva.Questo cimelio ci pone an-

che di fronte a due proble-mi insolubili: quello della scrittura e, in dipendenza di esso, quello della lingua in cui il testo è redatto.Prendendo in considerazio-ne soltanto il primo, dobbia-mo notare che ad esso non potremo dare forse mai una chiara risposta se la scrittura è puramente mnemonica o ideografica o anche compo-sta da segni aventi valore in parte ideografico e in parte fonetico, a meno che non tornino alla luce iscrizioni bilingui che presentino i re-quisiti necessari per svelare

Il disco di Festoil più antico testo di lettere mobili

Atanor

Fotografia di una faccia del disco di Festo.

2424

2525

tale enigma che, come disse il Pernier, è ancora più impe-netrabile della sfinge etru-sca.Se infatti i segni del disco hanno valore mnemonico o ideografico, è chiaro che la loro interpretazione può va-riare da studioso a studioso e che uno stesso interpreta-tore non può escludere mai la possibilità che un mede-simo passo sia da intendersi in più maniere; ne consegue evidentemente che nessuna esegesi apparirà sicura a meno che non intervengano altri elementi probanti, cioè numerosi testi congeneri che diano il modo di procedere a confronti applicando su larga scala il metodo com-binatorio o di interpretazione intertestuale.Per una scrittura in parte fonetica e in parte ideogra-fica si risolse il noto specia-lista di antichità cretesi sir Arthur J. Evans che già nel 1909 osservava l’esistenza, a parer suo innegabile, di un elemento certo ideografico tra i pittogrammi del disco. Lo seguì, fra gli altri, Gusta-ve Glotz, il quale notava che i segni «quoique souvent groupés dans un diséma-tisme quasi syllabique, ne sont pas assez mèlés d’éle-ments phonétiques pour tourner en écriture vraiment linéaire. Certains groupes (vedi fig 3) manifestent en-core la prédominance de l’image, sur le son comme la sucession de la téte de guerrier, du bouclier, e du captif aux mains liées dans le dos. Un tiers des signes

parait ainsi avoir une valeur idéographique». Per parte nostra, ci sembra che questi elementi abbiano un peso molto relativo, dato che un

susseguirsi di immagini in stretto rapporto l’una con l’altra non è di per sé suffi-ciente per dimostrare che una scrittura è ideografica.

Lo spazio non ci consen-te un più esteso esame dei vari problemi connessi con questo singolarissimo do-cumento, del quale ci ba-sta aver messo in rilievo il notevole procedimento di impressione a lettere mobili (che non ha riscontro nell’an-tichità) unendo qualche cen-no generale all’enigma della scrittura.

Bibliografia: D. Diringer, L’alfabeto nella storia della civiltà J. Sundwall, art. Phoistz Diskus-de Gruyter, vol X.• Prof. Luigi Pernier (Roma 23 novembre 1974 - Rodi 18 agosto 1937) Archeologo.

2626

Vittoria Colpi

Common ground è il titolo assegnato quest’anno alla 13. Mostra internazionale di architettura di Venezia ed è anche l’invito del curatore, David Chipperfield, a scopri-re i valori comuni nel fare ar-chitettura, quindi a porre l’in-teresse non su edifici isolati, spettacolari nella struttura e talora avulsi dal contesto nel quale vengono inseriti, ma su progetti che nascono dal dia-logo e dalla condivisione di problemi e intenti.Una manifestazione che vuole porsi come risposta alle Star-chitecture, apparse nei paesi del Golfo, in Cina, Corea e Giappone e in stati più piccoli e che paiono il frutto dei valori di mercato e dell’ideologia del postmodernismo.L’attenzione degli espositori, studi di architettura e dele-gazioni nazionali, si è rivolta quindi agli spazi pubblici, alle esigenze della gente, sotto il

profilo dell’accoglienza, e al miglioramento delle relazioni sociali, come pure alla riqua-lificazione e riuso delle risor-se ed edifici esistenti e alle capacità associative degli ar-chitetti nell’uso di tecnologie ormai globalizzate.Di tutto quanto la 13. Mostra di Architettura offre al visi-tatore, abbiamo colto alcuni spunti di riflessione, curiosità e qualche evento particolare.All’Arsenale, nelle Corderie, la mostra si apre, non a caso, con una rielaborazione di un chiosco di giornali. Studenti di Architettura di Venezia, in col-laborazione con ETH Zurigo e con Case Studio Vogt, hanno preso in gestione un chiosco cittadino dove espongono poster, mappe e giornali rea-lizzati per lo più con interviste ai passanti su temi quali tu-rismo, beni pubblici e realtà quotidiane. Il frutto è il gior-nale “Republic of common

ground” distribuito in mostra. La piccola architettura del chiosco ci riporta alle sue an-tiche origini islamiche di fon-tana pubblica, creando inoltre una forte analogia tra l’ac-qua un tempo distribuita alla gente e la parola stampata e diffusa. Dell’importanza dei media dà conto l’esperienza della Filarmonica di Ambur-go, che gli architetti Herzog & de Meuron hanno progettato riqualificando un vecchio edi-ficio portuale sull’Elba e il cui cantiere è stato sospeso nel 2011 per controversie tra le parti sociali, sorte per i costi eccessivi e amplificate dalla stampa. Il percorso della mostra è coinvolgente e sembra trasci-narci in una città fluida dove si fondono il brulichio della gente, le radici storiche della pratica architettonica e una progettazione condivisa. E il grande salone “Gateway”

allestito da Norman Foster, Carlos Cargas e Charles San-dison, tra suoni e proiezioni avvalora questa sensazione. Per terra si rincorrono i grandi nomi dell’architettura dei vari secoli e paesi, sulle pareti si susseguono veloci le imma-gini delle città e degli edifici all’interno della vita quotidia-na o di grandi eventi, il tutto accompagnato dal rumore della folla negli stadi, nelle manifestazioni o semplice-mente nelle strade.La spettacolare installazione di Zaha Hadid, ci rammenta poi come l’architettura debba vivere in simbiosi con la poe-tica dell’arte. ZHA ci propone candidi moduli dalle forme flessuose che si ricollegano alle sottili coperture a guscio e alle tensostrutture ideate dai grandi maestri dell’archi-tettura e ora oggetto di spe-rimentazione con nuovi mate-riali da parte dei suoi giovani allievi presso l’Università di Arti Applicate di Vienna.L’arte si associa all’architettu-ra nell’esperienza di riqualifi-cazione di un intero paesag-gio. Così in Messico la Ruta del Peregrino, un percorso di 117 chilometri e dedicato alla Vergine di Talpa, è stato valo-rizzato con punti panoramici, dormitori e diverse costruzio-ni, accentuando il significato spirituale del luogo.Una forte componente ar-tistica anche nei progetti di AR:BA, un brand nato recen-temente dalla collaborazione tra studi di Malesia e italiani e che ha dato vita a diversi insediamenti ecosostenibili che fondono tradizioni cul-turali dell’est e dell’ovest. Lo spazio della Malesia, intito-lato “Voices”, raccoglie una serie di modelli di affascinanti architetture all’interno di una particolare struttura di ferro serpentinata, per dare una

Venezia: realtà e utopie alla13a Mostra Internazionale

2727

idea di coesione nella proget-tazione dell’ambiente. In Common Ground non è mancato il cenno alla con-giuntura economica interna-zionale sfavorevole che ac-comuna il mondo occidentale e ai suoi riflessi sugli studi di architettura. Questo proble-ma è affrontato dal critico spagnolo Fernandez Galiano con uno stand nel quale dei giovani vestiti di bianco, quasi in segno di resa, mostrano ai visitatori modelli di importanti edifici realizzati a Madrid e a Barcellona.Passiamo ai Padiglioni inter-nazionali ai Giardini, dove il tema della mostra è sottoline-ato con semplicità e nel con-tempo con determinazione nello spazio degli Stati Uniti ai Giardini. L’installazione “Spontaneous Interventions: Design Actions for the Com-mon Goods” evidenzia come attrezzature o piccoli ma effi-caci interventi degli individui possano migliorare lo spazio pubblico di una collettività. Numerosi gli esempi apporta-ti. Tra questi: le Bubbleware, bolle gonfiabili realizzate ad Austin, Texas, che invitano i cittadini a sviluppare nuove forme di interazione sociale e

con i loro vivaci colori modifi-cano l’aspro aspetto urbano; le numerose City Farm di Chi-cago che riescono a sostene-re l’economia locale fornendo ortaggi a residenti e ristoranti e incentivano le occasioni di lavoro; infine l’esperimento ormai diffuso del Neighbor-land Website. Creato a New

Orleans per dare alla gente la possibilità di definire e realiz-zare comuni obiettivi, offre ai cittadini delle tessere su cui scrivere la cosa più desidera-ta per il proprio quartiere, tra-endone poi valutazioni.Il problema dell’accoglienza è particolarmente sentito in Canada, un paese da sem-

pre aperto alle immigrazioni, tuttora un’eccezione nel pa-norama internazionale di dif-fidenza, se non di chiusura. Migrating Landscapes è l’in-stallazione proposta, costrui-ta con una miriade di strutture di legno che definiscono di-verse idee di abitazione e di coinvolgimento nella società.

2828

L’aspetto spettacolare di mo-saico che ne deriva richiama l’identità culturale pluralistica del Canada.Nel contenitore Common Ground non è mancato il cenno al risparmio delle risor-se. Il Padiglione tedesco ha puntato sulle tre R: Reduce, Reuse, Recycle, creando una sorta di alleanza tra vecchio e nuovo. Gli esempi di riquali-ficazione apportati mostrano come la Baukultur tedesca ponga gli architetti di fronte alle questioni dell’energia, dei cambiamenti climatici e della demografia e attribuisca loro il compito e la sfida di ag-giornare le strutture esistenti. Questa capacità di recupero viene anche definita col ter-mine resilience. E l’AAA, Ate-lier d’Architecture Autogérée, fondato nel 2001 e con sede a Parigi, focalizza in partico-lare il problema dell’Urban Resilience, un passo avanti rispetto alla sostenibilità. Se infatti la sostenibilità vuole mantenere lo status quo del sistema, controllando l’equili-brio tra input e output, l’Urban Resilience porta il sistema a un cambiamento, ipotizzando cicli di produzione - consu-mo, su una base locale la più ridotta possibile ed una par-tecipazione attiva e coerente dei cittadini. Anche il problema della den-sità di popolazione è stata oggetto di interesse in Com-

mon Ground, per esempio dall’Angola, con un padiglio-ne all’Isola di San Giorgio Maggiore curato da due gio-vani architetti, Stefano Rabolli Pansera e Paula Nascimento. Essi hanno preso in conside-razione nella città di Luanda una zona periferica contrad-distinta da un forte densità di popolazione, circa 53.800 persone per Kmq, da carenza di edifici e di infrastrutture, quali la rete fognaria e quella elettrica. Il progetto esposto, in scala reale 1:1, evita inter-venti invasivi sul tessuto ur-bano esistente e si propone come spazio verde dotato di una infrastruttura a bas-sa tecnologia. Quest’ultima

consiste nella piantumazio-ne tra gli edifici di un tipo di canna, l’Arundo donax, idea-le per la bio-massa e inoltre in grado di filtrare le acque sporche e di assorbire grandi quantità di anidride carboni-ca, migliorando le condizioni di vita in modo sostanziale.Un cenno infine al Padiglio-ne Italia curato da Luca Zevi e dal titolo “Le Quattro Sta-gioni”: il racconto dei rap-porti tra architettura, eco-nomia e territorio nel nostro paese, partendo dagli anni Cinquanta del Novecento. Un percorso che inizia con l’esperienza della città-fab-brica di Ivrea, dove Adriano Olivetti vuole fare di ogni

complesso industriale un’o-pera d’arte e d’architettura. I successivi anni Ottanta vedono purtroppo un’ag-gressione al territorio con capannoni e brutti edifici, mentre l’architettura made in Italy nell’ultimo quindi-cennio ha cercato di ricreare una tipologia olivettiana di paesaggi industriali, riquali-ficando insediamenti e spazi pubblici. Ma non è tutto. La sfida di Expo 2015 “Nutrire il Pianeta” rappresenta un nuovo traguardo dell’archi-tettura verso la Green Eco-nomy e verso il concetto e la realizzazione di comunità sostenibili, in un rapporto equilibrato di spazi agrico-li e urbani e dove la gente possa vivere, lavorare e nu-trirsi.Quanto sopra scritto è una piccola parte di tutto ciò che la 13. Mostra Internazionale comprende, in un “common ground” di ideali e realtà. Ma la lezione di Chipperfield verrà ascoltata?Alle spalle di Venezia, a Mar-ghera spunta già la minaccia del Palais Lumière di Pierre Cardin, una torre alta 255 metri con 65 piani abitabili, definita dallo stilista veneto ma naturalizzato francese un “progetto per recuperare un territorio urbano e pae-saggistico degradato”. Sarà davvero un faro per Venezia o non getterà sulla città la-gunare, patrimonio univer-sale, una luce sinistra?

2929

Mirta Serrazanetta

Paesaggio allucinante e ric-co di risonanze misteriose questo proposto nell’attuale numero del Pane Quotidia-no, che ritrae il Giardino delle Delizie, scomparto centrale del Trittico omonimo. Uno stagno in cui defluiscono quattro fiumi che ospitano ai loro bordi strani gusci rotti di grandi uova, nelle quali si accalcano esseri umani nudi ambiguamente “unisex”… singolari e suggestive colline, torri sulle rive dello stagno, ricche di escrescenze mine-rali e vegetali… al centro un enorme globo, grigio azzurro, galleggiante sull’acqua im-mota, su cui nude figure di amanti si esibiscono in stra-ne acrobazie… così proposto questo frammento di pae- saggio potrebbe essere fa-cilmente scambiato per una pittura ricca di onirica sugge-stione di un artista surrealista del XX secolo! A dipingerla invece è stato uno straordi-nario pittore fiammingo del primo Cinquecento: Hiero-nymus Bosch. Il suo partico-larissimo stile dal complesso simbolismo, che trae le sue fonti dell’alchimia, dalla lette-ratura mistica e dai detti po-polari, dà forma a una tema-tica esclusivamente religiosa e morale: traviserebbe lo spirito della ricerca artistica di Bosch chi cercasse di in-terpretare le sue opere come se fossero frutto di pura di-vagazione fantastica. La sua arte, con perfetta aderenza alle esigenze della sua epo-ca, non si prefigge un mero compiacimento formale, ma vuole soprattutto essere si-gnificante, vuole trasmet-tere un messaggio morale. In quasi tutti i suoi dipinti il pittore mira a sottolineare la pericolosa vicenda cui l’u-manità va incontro, qualora si lasci sedurre dall’insidia

del peccato. L’unico rimedio al male è da Bosch indicato nella piena consapevolezza dello stesso e da ciò deriva la foga quasi ossessiva con cui mette in evidenza la de-bolezza e i vizi dell’umanità. Non sappiamo con precisio-ne chi siano i committenti di Bosch, probabilmente enti religiosi (il fine moraleggian-te d’altronde rendeva ac-

cettabili anche i mezzi figu-rativi più audaci, quali sono appunto quelli del nostro pittore); sappiamo però che l’artista credeva fortemen-te, tanto da far parte di una confraternita, quella di No-stra Signora, nella necessità di un’opera di moralizzazione che si opponesse alla ormai diffusa licenziosità e rilassa-tezza dei costumi, dilagante nella borghesia e persino nel clero. Nelle Fiandre, infatti, alla fine del Quattrocento, nonostan-te gli sconvolgimenti politici e gli scontri sanguinosi colle-

gati alla vicenda della Guerra dei Cento Anni, particolari privilegi ed esenzioni fiscali avevano creato una situazio-ne di singolare prosperità e benessere. La ricchezza era quindi largamente diffusa e produceva un forte desiderio di vita e di piacere. Vigevano così abitudini e usanze affat-to licenziose, che di lì a pochi decenni il clima moralistico

della Riforma avrebbe “spaz-zato via”. Erano molto diffuse e frequentate le famose “stu-fe”, bagni in comune ove non esisteva separazione tra uo-mini e donne, che fungeva-no spesso da vere e proprie case di piacere. Si tollerava ampiamente che le adesca-trici cercassero ovunque la loro occasionale clientela… non esclusi i luoghi sacri come le chiese. L’azione del clero era d’altronde debole e inefficace, perché anche i suoi membri cedevano vo-lentieri al richiamo del piace-re: frequentavano assidua-

mente le famigerate “stufe”, avevano delle concubine, permettevano che avessero luogo singolari e irriverenti cerimonie come, ad esem-pio, l’elezione della reginetta delle concubine!. La cerimo-nia avveniva a Liegi, durante le feste di Pasqua; la reginet-ta, una volta eletta, veniva portata in trionfo in chiesa, ove occupava un trono spe-ciale per tutta la durata delle cerimonie pasquali. Se quin-di corruzione, licenziosità e irriverenza dominavano gran parte della popolazione, vi si opponevano però numerose Confraternite, come quella di Bosch, che auspicavano una moralizzazione della società contemporanea, con parti-colare riferimento alle usanze sessuali. Anche il Trittico del-le Delizie risponde a questi intenti moraleggianti e dida-scalici. Il Trittico, che ha ante mobili alla maniera d’Oltral-pe, chiuso, all’esterno rap-presenta il terzo giorno della creazione, come antefatto. Aperto, mostra nello scom-parto di sinistra la creazione di Eva, evento base dei mali nel mondo, prima tentazione e preludio alla fatale caduta. Al centro è invece raffigu-rato il Giardino delle delizie, che rappresenta il torpore morale dell’anima dedita ai piaceri sessuali e dimentica della salvezza. Nello scom-parto interno di destra infine compare la raffigurazione dell’inferno, cioè dell’inevita-bile castigo. Lo scomparto più famoso è indubbiamente quello centrale, ove una folla di nudi delicati ed esili si ab-bandona ai piaceri della car-ne, in un giardino popolato da suggestive forme di frutti e di animali di proporzioni gigantesche, chiari simboli, come l’uovo, di piaceri ses-suale e di lussuria.

Gli enigmi nell’arte

Bosch: Trittico delle delizieovvero il trionfo di Satana

3030

Ercole Pollini

Quasi ottant’anni fa, da ra-gazzino, per me e i miei coe-tanei era un avvenimento quando arrivava a Tremezzo il battipalo che, senza un nome di battesimo, a nostra cono-scenza, che lo identificasse, era chiamato “MARTIN”.Probabilmente, l’etimologia della parola trae origine dalla funzione di …..martinetto…ossia, la massa battente sul palo. Normalmente, questa nave officina veniva a controllare i pontili d’attracco al centro lago – i più provati durante la stagione estiva dai quasi continui approdi di battelli, al-lora, in massima parte a ruote – ai primi d’ottobre, alla fine della stagione turistica.

Capitava sporadicamente, in piena stagione, che qualche maldestro timoniere pren-desse d’infilata normalmente la terna dei pali d’appoggio e, quando andava male (ma era assi raro) i pali di sostegno del pontile vero e proprio. In questo caso, l’intervento del MARTIN, era immediato: un vero e proprio Pronto Soc-corso.A onore del vero, bisogna dire in gergo che per far ora-rio (ciò stava a significare “ri-cuperare il ritardo”), i poveri timonieri, quando non il ca-pitano stesso, erano costretti a fare delle vere acrobazie all’accostamento ai pontili con dei battelli lunghi cin-quanta – settanta metri. Arri-

vavano a piena velocità quasi al pontile, poi veniva ordinato “l’indietro tutta” e, quando andava bene, il battello veni-va pennellato in posizione al pontile. Mi ricordo di due co-mandanti, il mio amico Berto Corti e il genovese Massanti, che erano dei veri maestri in tale bisogna.Oggi qualcuno può doman-darsi: “Ma chi glielo faceva fare?”. A quel tempo, in piena era fascista, per le ferrovie e i mezzi pubblici di trasporto, battelli compresi, era impera-tivo “rispettare gli orari”; non come si fa oggi che un po-vero pendolare che parte da Piacenza, arriva a Milano con decine e decine di minuti di ritardo! E nota: non si barava

ampliando gli orari e inoltre con mezzi superlativi a dispo-sizione ma con locomotive a vapore, il che è tutto dire.Cari lettori cosa ne pensate?

A quei tempi non c’era la televisione e i cinematogra-fi erano una rarità, e per noi “giovani figli della lupa capi-tolina” era un doppio diverti-mento l’arrivo del “Martin”; in primis, per l’equipaggio che spesso e volentieri tirava dei moccoli, non proprio elabora-ti alla fiorentina, in ogni modo abbastanza significativi; in secundis, per il gravoso e difficile lavoro di piazzamen-to dei lunghi e grossi pali per l’attracco dei battelli, che ri-chiedeva una grande abilità.

Giugno 1974 - Il battipalo MARTIN ormeggiato alla boa nel porto di Como in predisarmo.

El guarnascIl Battipalo “MARTIN”

3131

dopo quasi settant’anni d’in-tenso servizio.Il MARTIN venne progettato e costruito all’inizio del 1900, secondo alcuni, dall’allora di-rettore della Soc. Lariana ing. Campiglio, che, per le nuove esigenze di logistica, neces-sitava di un mezzo atto sia alla costruzione dei pontili, sia come nave officina vera e propria per gli interventi che oggi chiamiamo “di pronto soccorso” della numerosa flotta del Lario.

ScafoEra a fondo piatto, con la prua assai profilata ma con la poppa squadrata per conferi-re allo scafo una buona sta-bilità, inoltre la sua struttura era surdimensionata per sop-perire alle notevoli sollecita-zioni cui veniva sottoposto. Il pescaggio era quasi di due metri.La cala di prua che impegna-va un terzo dello scafo, era

adibita a magazzino; la parte centrale ad alloggio dell’e-quipaggio con brandine, una mini cucina a carbone e al-cune suppellettili; la parte di poppa alloggiava un motore a testa calda a petrolio con inserimento manuale della

direzione di marcia che avve-niva con il motore al minimo.

MotorizzazioneMerita un cenno storico il MOTORE A TESTA CALDAQuesto tipo di motore, l’an-tisegnano per eccellenza del motore Diesel, lo si può de-finire come MOTORE SEMI-DIESEL (1906/1908).Era un motore alimentato a petrolio o a olio combustibi-le pesante, nel quale l’intro-duzione dell’aria è separata da quella del combustibile, come nei motori DIESEL, ma la compressione della prima è mantenuta tra limiti molto più bassi, sicché per ottene-re l’accensione della miscela combustibile si rende neces-sario la aggiunta di un siste-ma di accensione il quale si riduce a un semplice artificio: riscaldare la testa del cilindro con una “lampada svedese” detta, in gergo tecnico fran-co-milanese, “salumò”, che non è altro che una lampada a saldare a vapori di benzina in pressione. Qualcuno di Voi si ricorda i fa-mosi fornelli a petrolio “PRI-MUS”?L’avviamento di questo mo-tore, classificabile come un “ 2 tempi”, avviene girando a mano l’albero motore in modo da portare il cilindro in compressione, con una rota-zione, di senso opposto alla normale, e senza che lo stan-tuffo raggiunga il punto morto superiore. Fatto ciò, si aziona a mano la piccola pompa del

Caratteristiche tecnichePurtroppo, malgrado le mie continue ricerche, non ci sono biografie dei battelli battipalo del lago di Como, salvo quelle per la TREMEZ-ZINA; e sì che tutti i pontili costruiti dalla fine dagli ultimi lustri del 1800 al 1979 sono la testimonianza del notevole lavoro svolto da queste unità, nemmeno nelle memorie del compianto capitano Arman-do Sberze, vera enciclopedia della storia dei battelli del lago di Como.Pertanto tutte le informazioni che tenterò di dare di segui-to, sono frutto dei miei ricor-di visivi di gioventù e delle informazioni raccolte (boc-ca - orecchio) dagli anziani “lagheè”, passati all’Oriente Eterno ormai da decenni. Le due fotografie da me fatte nel giugno del 1979, ripren-dono il MARTIN a Como or-meggiato alla boa in diga, ormai prossimo al disarmo,

Giugno 1974 - Il battipalo MARTIN ormeggiato alla boa nel porto di Como in predisarmo.

Novembre 1941 - Impegnato nel ricupero del BRUNATE affondato a Bellagio.

3232

combustibile, ottenendo uno spruzzo di petrolio o di olio combustibile che, bruciando a contatto della calotta del-la testa, precedentemente riscaldata dalla lampada a benzina, produce l’esplosio-ne e fa partire il motore.Una volta partito, il moto-re viene alimentato con un semplice carburatore a ca-duta.Era quanto di più spartano esistesse allora, ma tanto il battipalo non necessitava di una gran velocità. Era-no motori monocilindrici, di potenza inferiore ai 25 CV, e con un numero di giri assai basso. La loro semplicità e robustezza caratterizzava una affidabilità notevole.

ArganoL’argano e il gruppo frizione che comandavano il marti-netto, erano sistemati so-pracoperta. Non ho notizie del tipo di motore ma so cer-tamente che era un diesel di provenienza automobili-stica, adattato alla bisogna dalle capaci maestranze della Lariana.

Organo di governoIl timone era diretto, coman-dato da una semplice barra di governo, esposto ai quat-

tro venti, poiché una cabina di comando sarebbe stata d’intralcio alla movimenta-zione dei lunghi pali.

EquipaggioEra composto di cinque uni-tà, il caposquadra facente funzione di comandante, il motorista e tre operai poli funzioni. Mi ricordo sempre con simpatia di loro, per la loro abilità e affiatamento e, perché, malgrado una par-venza di un carattere burbe-ro, avevano un cuore d’oro.A tale proposito vi racconto un fatto: era settembre inol-trato ed erano dovuti inter-venire d’urgenza per ripristi-nare una palificazione d’ap-poggio adiacente al pontile. La giornata era stupenda e a noi nullafacenti non pa-reva vero dell’insperato di-versivo. A un certo punto ai quattro della mia banda, io, il Miro, il Ras Malugheta e il Pagnottella venne un’idea: andare a rubare della frutta sui piani di Rogaro e portar-la all’equipaggio. Ipso facto partiamo e nel giro di poco tempo riempiamo un capace paniere di uva, fichi, pesche tardive, pere e mele.Ritornati alla base, ci rechia-mo a bordo del battipalo mentre ferveva il lavoro, ac-

colti dagli urlacci degli ope-rai preoccupati della nostra incolumità. Avviciniamo il capo, detto Negus, e gli con-segniamo il paniere con la frutta. Tutti restarono senza parola, tanto era la sorpresa. Dai loro occhi capimmo che erano commossi. Il capo al-lora ci disse: andate a casa e avvisate le vostre mamme che oggi verrete a mangiare con noi la “pulenta vuncia” e i “bastardelli” (specie di cac-ciatori della Tremezzina).Il motorista che aveva anche la funzione di cuoco, liberata la fucina dagli attrezzi, piaz-zato un trespolo, vi appese un capace paiolo di rame per riscaldare l’acqua del-la polenta. Con consumata abilità, quando l’acqua co-minciò a bollire vi versò la farina mista di granoturco e farina facendo attenzione che non si formassero i “fra-ti”. A due terzi dalla cottura aggiunse un mezzo chilo di burro, altrettanto formaggio magro di Rogaro, un tocco di Gorgonzola e continuò a rimestare il tutto sino a fine cottura.Apparecchiata una tavola spartana sulla tuga del mo-tore, con al centro due bei bottiglioni di vino, il capo riempì i nostri piatti e i loro.

Ve lo garantisco, non ho più mangiato una polenta così saporita!Per concessione particolare ci versarono mezzo bicchie-re di un profumato vino ros-so prodotto dal parroco di San Giovanni di Bellagio.

Procedura di piazzamento del paloCerco di descrivere come si svolgeva il lavoro: - I pali da sostituire, nor-malmente pini di Slavonia, approvvigionati in Tirolo, lunghi dai dieci ai quindici metri; venivano trainati dal battipalo;- Giunti sul posto di piaz-zamento, venivano issati a bordo per l’applicazione a una estremità di una puntaz-za e all’altra, di un anello di contenimento battitura, en-trambi forgiati con la fucina di bordo;- Si procedeva quindi a sfi-lare il palo avariato, imbra-gato con una fune d’acciaio e tirandolo con l’argano del martinetto;- Determinata la posizione idonea, si cominciava a riz-zare il palo nuovo utilizzano la torre di prua o quella late-rale secondo la bisogna;- A questo punto s’iniziava con la massima circospezio-ne a battere il palo col mar-tinetto facendo la massima attenzione che la punta non incontrasse qualche grosso masso che ne impedisse la penetrazione e rovinasse di conseguenza la puntazza. I due addetti alla torre, si re-golavano che la penetrazio-ne del palo, a ogni colpo del martinetto, fosse regolare altrimenti ne bloccavano im-mediatamente la battitura. Era un lavoro di una squa-dra affiatata, reso ancor più difficile dall’ancoraggio del battipalo e soprattutto dall’accostamento continuo dei battelli di linea che inter-rompevano il lavoro.- Ovviamente questo lavoro non poteva essere eseguito con il lago mosso. Alcune volte, specie se la sostitu-zione del palo avveniva in alta stagione, il lavoro si effettuava anche di notte e con la pioggia.

Gennaio 1947 - Impegnato al ricupero del BARADELLO affondato ad Abbadia Lariana dagli aerei alleati il 27 gennaio 1945.

Dalle memorie culinarie di mia nonna Ester (classe 1865), riporto questa ricetta milanese per cucinare il cavolo bianco e quello rosso, retaggio della domi-nazione austriaca a Milano, verdura che si accom-pagna solo al “cotechino” e, di riflesso, alle “luga-neghe” brianzole, ovviamente, dal tardo ottobre all’inverno.Un po’ di storia è di pragmatica: …È superfluo ri-cordare la grande diffusione che hanno i crauti (il “Sauekraut” degli Austriaci, la “choucroute” dei Francesi e dei Belgi) in tutta l’Europa, e special-mente in quella centrale e occidentale. La fama dei crauti è antica e con molta probabilità la preparazio-ne di questa peculiare del cavolo (bianco e rosso) è mediterranea e anzi latina.Il nome tedesco del cavolo, Kohl, deriva dal nome latino coulis, e la parola popolare kumpost, ancora usata in alcuni villaggi della Germania per designare i crauti, proviene dal vocabolario latino compositum col quale si classificavano tanto le olive conservate in una particolare salsa, quanto i cavoli fermentati e conservati.La parola tedesca “sukrut” (crauti) compare nelle cronache tedesche verso il II° secolo. In tutto il Medio Evo ai cavoli si è attribuito non solamente il significato di un buon ortaggio alimentare, ma an-che quello di un ortaggio a carattere medicamento-so: e un vecchio proverbio popolare germanico di-ceva appunto che il cavolo cura la pelle dei giovani. Nel 1610 il medico Ippolito Guarinoninus in una sua nota opera indica i crauti come un ottimo sussidio diuretico.Nel periodo delle esplorazioni e dei viaggi oceanici (e cioè nel periodo susseguente alla scoperta dell’A-merica) i crauti assumevano una grande importan-za come materiale antiscorbutico, materiale che era possibile caricare a bordo delle navi in quantità grande. Ogni nave cercava di procurarsene masse notevoli prima di intraprendere un viaggio di lunga durata e ancora verso la metà del XVIII secolo lo scorbuto compariva con relativa frequenza negli equipaggi inglesi per l’incuria nel preparare l’ade-guato carico di crauti, mentre non faceva la sua ap-parizione sulle navi olandesi rifornite del benefico ortaggio conservato. Del resto i navigatori di ogni paese conoscevano l’importanza dei crauti (che in ultima analisi costituivano la sola forma di ortaggio conservato in un’epoca nella quale era ignoto l’im-piego del freddo e di altri conservativi) e Cook nel suo viaggio circumterrestre caricò in partenza 80 t. di crauti e gli ufficiali ne mangiavano ogni giorno per dare il buon esempio agli equipaggi.Nel primo ventennio del secolo scorso, la scoperta della vitamina contenuta in quantità e in modo vario (Vitamina B1, B6, A, C, ecc.) nel cavolo ha finito per nobilitare completamente il cavolo e i crauti.

3333

Repertorio Gastronomico Milanese

La gloriosa storia dei crauti

Ercole Pollini

Preparazione

Eliminare dal cavolo le foglie esterne - tagliare a metà il cavolo - elimi-nare il torsolo - tagliate le foglie a piccole strisce e metterle a bagno nell’acqua per almeno un’ora, indi, scolarle accuratamente.Mettere in una casseruola: il burro, il lardo o il grasso di prosciutto cru-do dopo averlo spappolato bene con una mezzaluna, l’olio d’oliva, lo scalogno tagliato assai finemente e rosolare il tutto a fuoco moderato. Quando lo scalogno comincia a imbiondire, aggiungere le striscioline di cavolo, farle stufare sempre a fuoco moderato (non devono assoluta-mente essere “gremate” - inizio di bruciatura, - altrimenti sarebbero da buttare) mescolandole continuamente. Appena appassite, aggiungere il vino bianco e farlo sfumare a fuoco leggermente più alto. Indi riabbassare il fuoco, aggiungere l’aceto, mescolando bene, gli aromi, salare quanto basta e portare a cottura con del brodo che va aggiunto gradatamente. Cuocere col fuoco al minimo per almeno due ore. I crauti possono essere serviti caldi o tiepidi con il cotechino o le sala-melle, che sono di pragmatica.

Ingredienti (per quattro persone)

- un cavolo cappuccio (più gustoso quello rosso) del peso di 1 kg- 30 g di burro- 150 g lardo venato o, meglio, parte grassa del prosciutto crudo- n° 3 cucchiai di olio d’oliva extra vergine- n° 4 scalogni (in mancanza, cipolla bianca)- 100 cc di vino bianco- 100 cc di aceto di vino bianco- brodo di carne o vegetale q.b.- aromi: timo, due foglie di alloro, alcune bacche di ginepro- sale qb

3434

Antonio Aràneo

Zanzare

La moglie al marito:Caro, cosa preferisci: una donna bella o una donna intelligente? - Nessuna delle due, cara. Ti amo così come sei…(L. Chicchi)

- Ci sono due posti dove, più che altro, mi piace esser baciata. - Quali? - Venezia e Sorrento. (Gino e Michele)

Le mogli sono come le scar-pe: quando cominciano ad andar bene sono da buttar via. (L. Antonelli)

Dicono che Orfeo scese fino all’Inferno per cercare la moglie scomparsa. Tutti i vedovi che conosco non andrebbero neppure in Paradiso per ritrovare la loro moglie. (N. De Lanclos)

Gli atei non dovrebbero avere l’osso sacro. (R. Gomez de la Serna)

- Pierino, fammi un esempio di un verbo al presente e un altro all’imperfetto. - Sì, un esempio è mio zio, che si chiama Guido; l’altro è mio cugino, che si chiama Gustavo.(L. Chicchi)

Se son fiori, fioriranno.Se son more, moriranno.Se son cachi, …(L. Chicchi)

Un raffinato è uno capace di sbadigliare senza aprire la bocca. (J. Garland Pollard)

Un gentiluomo è uno capace di descrivere Sophia Loren senza fare gesti.(M. Audiard)

In Italia vi sono oltre cin-quanta milioni di attori. I peggiori sono sul palcosce-nico. (Orson Welles)

Gli attori recitano nella speranza di fare l’amore. Le attrici fanno l’amore nella speranza di recitare.(D. Formica)

L’uomo è l’unico animale che arrossisce, ma è anche l’unico ad averne motivo.(Mark Twain)

Una volta si diceva: ti amerò tutta la vita. Ma allora la vita media era di 45 anni. Oggi è meglio non sbilanciarsi.(L. De Crescenzo) Gli uomini hanno soltanto due cose per la testa. La seconda è il denaro.(Jeanne Moreau)

Queste donne impossibili: non si può vivere né con loro, né senza di loro. (Aristofane)

Le donne sono nate per soffriggere. (G. Boncompagni)

Un uomo con un grosso

conto in banca non può essere brutto. (Zsa Zsa Gabor)

L’amore è fisica, il matrimonio è chimica. (A. Dumas f.)

L’amore è cieco, ma il matrimonio ci dà la vista.(Georg C. Lichtenberg)

Gli uomini nascono liberi e con uguali diritti. Poi, purtroppo, molti si sposano. (Marcel Jouhandeau)

Io le ho chiesto di sposarmi, e lei mi ha detto di no. E da allora viviamo felici e contenti. (Spike Milligan)

La felicità di un uomo ammogliato dipende dalle donne che non ha sposato.(Oscar Wilde)

Certamente ci sarebbero meno mariti traditi se si abolisse il matrimonio. (J. A. L. Commerson)

Il matrimonio riduce i nostri diritti e aumenta i nostri doveri. (Alexander G. Bell)

Un uomo che parla male del matrimonio, o non ha avuto la donna che desiderava, oppure l’ha avuta.(Jacques Marchand)

Dobbiamo sposare soltanto donne belle, se vogliamo che poi qualcuno ce ne liberi. (Sacha Guitry)

CERAMICHE • PARQUET • GRANITI • PIETRE • MOSAICI •

MARMI • ARREDOBAGNO • SANITARI • RUBINETTERIE • BOX

DOCCIA • VASCHE IDROMASSAGGIO • SAUNE • CUCINE •

Lo Showroom Caimi è aperto per voi !! Tutti i giorni fino alle ore 19.00

Il Sabato fino alle ore 18.00

Il Giovedì apertura straordinaria fino alle ore 21.00 !!

Caimi International

Via Adamello,37 • 20824 Lazzate (MB) • Tel . +39 02 96720500 r.a.

Fax Direzione +39 02 96320663 • Fax Vendite +39 02 96729881

www.caimiinternational.com • [email protected]

Gastronomia Roscio

A-27 spa

Salumificio Fratelli Beretta

Firma Italia

Ceriani Illuminazioni

A & DCastelli Gruppo Sogemi

Pestarino AlBrandazzi Mario

Viko International

Sant’Agostino G & C.

Antica PasteriaCaterline

Medici Volontari Italiani

Robo

Grossisti Ortomercato Milano

Com.alGruppo Zamparini

San Carlo Gruppo Alimentare

Kellogg’s Italia

Scodema Pai

Bel Italia Cida

Fres.coPanem

Granarolo

Edilzeta

Coca Cola HBC Italia

Lavazza

Dolcissimo

Lindt & Sprüngli

Aromatica Galbusera & C

Ferrero spa

Vast Italia

Sanofi Aventis

GA.BOR

Puglia Food

Teatroalla Scala

Hello KittyMi Food

Pubblio’

Nestlé

Unicredit

Mars

C&T

Kpmg

Aurora UBI Banca Cariplo