2 o. ballou

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O. B A L L O U

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O. B A L L O U

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O. Ballou nasce nel 2013 a Londra, per mano di Simon Cato, fon-datore e designer del marchio. Partito da studi sulla fotografia e fatto esperienza in aziende di moda nel settore dello sviluppo del prodotto e della produzione, possiamo affermare che, in quanto designer, Simon Cato nasca proprio con O. Ballou; la decisione di prendere in analisi il brand piuttosto che il designer risulta, dunque, poco rilevante appreso che l’uno s’identifichi con l’altro, ed è giustificata accettando la scelta di Simon Cato di esordire a partire dalla costruzione di un brand che non porta il suo nome come titolo. Proprio a partire dal titolo scelto per definire il marchio possiamo comprendere gran parte dell’identità che tenta di rappresentare O. Ballou. Il nome per intero è Ottati Ballou; Ottati è un piccolissi-mo comune di poco più di 600 abitanti situato in Campania, nel-la provincia di Salerno e Ballou è, in lingua inglese, un vocabolo con cui si usa chiamare un piccolo ragazzo. Il sostantivo deriva dal termine tibetano “Bal” che significa “capelli di lana”. Da qui possiamo verosimilmente sostenere che O. Ballou abbia a che fare con la Campania, o per lo meno l’Italia, venga presentato come un prodotto giovane, in via di sviluppo e che ci sia un colle-gamento con i materiali quali la lana o, seguendo il collegamento geografico col tibet, col cashmere.

Rispetto alla formazione del designer, infatti, è interessante no-tare che nasca circa trent’anni fa in Nuova Zelanda, zona che fa della lana merino il suo prodotto di eccellenza nel mondo, e si interessi primariamente alla fotografia tanto da trasferirsi all’uni-versità di Edimburgo, in Scozia, per specializzarsi ulteriormente nella materia. L’interesse sul piano rappresentativo ed iconogra-fico pervade ancora oggi l’intero progetto O. Ballou e, a due anni dalla nascita, già si contano importanti collaborazioni con giovani fotografi/ film-maker talentuosi quali Errol Rainey, Chris Read, Jasset Harlech, Adrian Lopez Pena, Mar Ordonez, Jessica de Maio e Sara Sani.

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L’immagine restituitaci è sempre un’immagine attenta a non con-traddirsi mai, un’immagine analogica, sgranata, che non vuole isolare mai l’abito dal contesto, interessata più a raccontare una storia a capitoli più che a riscriverne una sempre nuova. Ed è, fino ad ora (due collezioni all’attivo), un’identità visiva assoluta-mente italiana, che prende spunto da città come Napoli o Paler-mo e le reinterpreta sia in diario visuale che in abiti. Un’identità visiva che si colloca tra Gomorra e una più nobile e cittadina real-tà meridionale senza però risultare anacronistica e pesante.

La cura per la ricerca e il trattamento dei materiali rimane l’aspet-to fondamentale che qualifica come prodotto (e non solo come ricerca fotografica) il brand. Più di tre anni sono stati spesi per trovare i più indicati fornitori e produttori artigianali in Italia affin-ché il marchio, date le intenzioni, potesse nascere. La produzione è interamente in Italia tra Toscana, Marche e Campania con spe-cializzazione soprattutto nel trattamento della pelle a della ma-glieria (la pelle trattata direttamente a Santa Croce sull’Arno ; la lana merino, lavorata presso l’azienda Cariaggi proveniente dalla Nuova Zelanda e la maglieria prodotta interamente in Campania).

L’aspetto curioso e singolare è verificare come sia stato un ne-ozelandese trapiantatosi in Gran Bretagna, da ormai 7 anni, a rilanciare con freschezza e novità un’estetica inflazionata e ap-pesantita dagli anni, con uno sguardo che si fa gioco proprio della potenza di questo lascito culturale fatto di arte, di spiagge affollate e di processioni religiose. Una cultura molto distante da quella sua di origine ed anche da quella anglosassone; è forse data da questo distacco materico-culturale la fortuna con cui il marchio è riuscito a comunicare questo messaggio? Di certo, pur mantenendo caratteristiche progettuali piuttosto tradizionali (dal tipo di design, alla costruzione dei capi, dal made in italy, al tipo di stile) O. Ballou si pone, nel rapporto con la propria identità, con una camera che guarda la scena da posizione decentrata, da osservatore interno alla vicenda ma muto, che fa leva sulla ma-trice popolare ed iconografica della realtà presa in esame, senza spingersi oltre.

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